Ad un anno dalla tragedia del Rana Plaza, l’indegno silenzio sulle vittime
Un anno fa, esattamente il 24 aprile del 2013, 1.138 operai morirono nel crollo del Rana Plaza alla periferia di Dacca, nel Bangladesh, e centinaia di altri rimasero mutilati. Lavoravano in condizioni inumane – praticamente schiavi – in centinaia di micro aziende tessili che producevano per grandi marchi internazionali. L’enorme edificio che le ospitava senza alcun controllo, era stato stipato all’inverosimile di attrezzature e macchinari; la solita ottusa avidità spingeva a sempre maggiore attività negli stessi spazi. La tragedia è stata l’epilogo inevitabile quanto annunciato, con il collasso d’una struttura di per sé inadeguata, sottoposta, in maniera criminale quanto scriteriata, a sollecitazioni infinitamente superiori a quanto le sue modeste caratteristiche potessero sopportare.
A distanza d’un anno da quella carneficina, i problemi per i superstiti (mutilati e per questo incapaci a qualunque lavoro, per quanto sottopagato) e le famiglie di chi è morto sono ancora lì. Dal 24 marzo scorso s’è aperto un processo, ma sarà lungo e costoso e difficilmente darà soddisfazione a chi a quel crollo, sia pur segnato, è sopravvissuto, o ha perso chi in qualche modo provvedeva al proprio sostentamento.
Sull’onda dell’emozione (e della pressione mediatica) per quel disastro, troppo grande per passare sotto silenzio, è stato siglato un accordo fra marchi internazionali, Governo del Bangladesh (che dopo aver permesso quello sconcio per l’occasione s’è ricordato d’essere un Governo), lavoratori, sindacati nazionali (che nella prassi hanno poco o nulla rilevanza), sindacati internazionali e Ong, supervisionato dall’Ilo, l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (un’Agenzia dell’Onu). Esso contempla un programma di risarcimento per le vittime, denominato comunemente l’Arrangement, fissato complessivamente a 40 ml di $. Malgrado la somma sia incredibilmente bassa per tante vite spezzate, il Donar Trust Fund, istituito per raccogliere le donazioni conseguenti all’accordo, è vergognosamente sotto finanziato: fra i marchi e i loro distributori sono stati raccolti solo 15 ml di $.
È incredibile lo spudorato cinismo di grosse società, che devono il loro successo imprenditoriale anche al lavoro sottopagato (spesso svolto in condizioni estreme) di quei lavoratori, che non intendono separarsi neanche da una minima frazione dei loro grassi utili per indennizzarli. Malgrado sia una lista lunga (erano in tanti a fare gli sciacalli sulla pelle di quella gente), vogliamo elencarli di seguito, ponendo in testa i tre “campioni” italiani: Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee e poi gli altri: Adler Modermarkte, Ascena Retail, Auchan, Carrefour, Cato Fashions, Grabalok, Gueldenpfenning, Iconix (Lee Cooper), J C Penney, Kids for Fashion, Matalon, Nkd e Pwt (Texman) ; tutte aziende che avevano produzioni al Rana Plaza durante il crollo poco prima di esso.
Se, per fare un esempio fra tutti, guardiamo al Gruppo Benetton, che si è sempre distinto per campagne pubblicitarie stucchevolmente “politicamente corrette”, notiamo che la richiesta di 5 ml di $ per il Fondo di risarcimento equivale all’1,4% (l’1,4%!!) degli utili realizzati dal Gruppo nel 2012, annualità precedente al disastro; utili realizzati anche grazie alle sofferenze inflitte a quella gente.
È semplicemente ignobile che il destino di quelle vite spezzate, di quelle famiglie private di sostentamento, sia lasciato al discrezionale egoismo di chi guarda esclusivamente al proprio gonfio portafogli. È grottesco che il Governo del Bangladesh e gli industriali, oltre alle belle parole non mettano sul piatto le risorse (tra l’altro assai contenute) per quel Fondo di Risarcimento. È vergognoso che i Governi Usa e dei Paesi della Ue, oltre a inconcludenti bla bla che nulla costano, non facciano nulla di concreto perché le aziende paghino quanto di loro spettanza.
Un’ultima notazione per concludere: la delocalizzazione delle aziende per abbassare i costi è pratica largamente applicata dalle grandi società occidentali, è il mercato, si dice, e ce ne siamo occupati varie volte; ma questo non c’impedisce d’affermare che sia un abominevole sconcio permettere che si lucri impunemente sulla pelle di chi per fame è disposto ad accettare anche condizioni di schiavizzazione.
Governi, Istituzioni e Organismi Internazionali, oltre a spendere contrite quanto ipocrite parole di circostanza, si attivino una buona volta contro questo scellerato sciacallaggio ponendo limiti e regole. Ma già… ancora e sempre è il mercato, direbbero i soliti soloni.