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A Mammona conviene che non taccia il rumore delle armi

«Questa guerra di là, quest’altra di là – perché dappertutto ci sono guerre – è davvero una guerra per problemi o è una guerra commerciale per vendere armi nel commercio illegale?». Papa Francesco ha utilizzato un modo retorico, elegante, coraggioso, durante l’Angelus di domenica scorsa, per spogliare la soluzione bellica di ipocrite vesti umanitarie. L’ha così messa a nudo, il Santo Padre, quella extrema ratio che troppo spesso non è estrema ma premeditata. Un messaggio diretto alle orecchie di Obama, Cameron, Hollande e di tutti i fautori dell’intervento militare in Siria: bando alle frottole, la guerra non risolve le crisi. Piuttosto, serve a far arricchire i mercanti di armi e i loro soci in affari.

Concetti che sferzano le coscienze dell’opinione pubblica. E che trovano riscontro nella realtà dei fatti. Se c’è un settore che non conosce recessione, d’altronde, questo è quello delle armi. Secondo i dati dell’Unione europea, per le industrie del Vecchio Continente gli affari lievitano senza sosta: il 2011 ha conosciuto un aumento del 18% degli ordinativi per un fatturato annuo di 37,5miliardi di euro. Dati che, se analizzati al dettaglio, dimostrano il livello di coinvolgimento europeo nelle turbolente regioni interessate dai cosiddetti “venti di primavera”.

L’Osservatorio sulle armi leggere di Brescia (Opal) denuncia che, durante le rivolte arabe, solo dalla provincia bresciana sono state esportate verso il Nord Africa armi e munizioni per un valore complessivo di 6,8milioni di euro, mentre ai Paesi del Medio Oriente sono finite armi per 11milioni di euro. Anche l’Opal contesta l’ipocrisia della comunità internazionale, che soltanto oggi si accorge del dramma siriano e prende in esame un intervento militare. «Dovevano essere fermate prima – scrive l’Opal – anche le esportazioni di armi leggere che l’Italia (in particolar modo dalla provincia di Brescia) e diversi Stati europei hanno continuato a inviare nei Paesi confinanti con la Siria». «Le armi leggere – prosegue il comunicato – sono vere e proprie “armi di distruzione di massa” (come disse l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan), che hanno alimentato il conflitto». L’Unione europea, nonostante un embargo di armi verso la Siria da lei stessa stabilito nel maggio 2011, ha continuato a permettere l’invio ai “ribelli” siriani di “materiali militari non letali”: fucili, pistole, mitragliatrici, ossia quelle armi leggere che «hanno alimentato il conflitto». Alla faccia del premio Nobel per la pace conferitole l’anno scorso.

La complicità dell’Unione europea in questo traffico che genera lutti si spiega col denaro. L’industria bellica rappresenta, infatti, una miniera d’oro per gli Stati, i quali spesso ne controllano delle quote. È il caso dell’Italia e di Finmeccanica, di cui il Ministero dell’Economia detiene il 30%. Ebbene, appena qualche giorno fa Minuto Rizzo, consigliere d’amministrazione della nostrana azienda semi-pubblica, si è esibito – non a caso – in una reprimenda nei confronti del Governo italiano, giudicato “troppo morbido” circa il da farsi in Siria. «Messa in termini pragmatici – ha detto Rizzo – all’Italia potrebbe convenire stare nel “gruppo di testa” con Washington, Londra e Parigi». Ossia, con chi vuole bombardare la già martoriata nazione siriana.

La mole di affari correlata al traffico di armi dimostra, dunque, che il Papa ha posto una questione di strettissima attualità e, invero, finora poco approfondita. Il suo vibrante messaggio, seppur privo di riferimenti specifici, ha fornito una chiave di lettura ulteriore a ciò che sta per consumarsi in Siria. Qualche dato che può aiutare a comprendere il significato delle sue parole: il 75% della spesa militare globale riguarda appena 10 Paesi e gli Stati Uniti guidano la classifica con il 43% di tale introito. Ecco. Si è capita ora qual è la “ragione umanitaria” che spinge Obama e i suoi accoliti a voler premere il grilletto contro Damasco?

di Federico Cenci

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