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A chi conviene la crisi in Ucraina?

di Salvo Ardizzone

Anche se l’Ucraina è sparita ormai dalle prime pagine, i morti laggiù si contano ormai a centinaia in uno stillicidio di scontri sanguinosi; è una crisi di cui non s’intravede soluzione e che minaccia di cronicizzarsi, minacciando sviluppi destabilizzanti. Qui vogliamo fare il punto sui motivi che, malgrado le convenienze della gran parte degli attori in campo, continuano a produrre sangue e lutti.

Putin, consapevole d’aver tutto da perdere nel mantenere alta la tensione, a maggio aveva fatto diverse aperture per giungere ad un accomodamento: cautela verso la dichiarazione d’indipendenza di Donetsk, ritiro delle truppe dal confine ucraino, appoggio indiretto alle elezioni presidenziali di Kiev; ma uno dopo l’altro ci sono stati due colpi inattesi che hanno alzato i toni, bloccando di fatto la possibilità d’un accordo. Dapprima Poroshenko, appena eletto alla presidenza ucraina, rilascia dichiarazioni non solo insolitamente dure verso i separatisti filorussi e un possibile assetto federale dello Stato, ma che rimettono in discussione il destino della Crimea. Il Cremlino ha appena il tempo d’assorbire la botta, che il 4 giugno, a Varsavia, è Obama a usare toni minacciosi: chiude all’ipotesi di maggiori autonomie regionali e, rimettendo anch’esso in discussione l’occupazione della Crimea (l’unico argomento che Putin non può in alcun modo mettere in discussione) e l’appoggio russo ai separatisti, liquida il negoziato mettendolo in un vicolo cieco.

A questo punto il gioco di Washington è anche troppo chiaro; gli Usa hanno tutto l’interesse che la vicenda ucraina si cronicizzi, e per molte ragioni: in primo luogo, inchiodando Mosca in una crisi, e in più affibbiandole il ruolo di “cattivo” dinanzi all’opinione pubblica occidentale grazie a media compiacenti, la distoglie da altri teatri (leggasi Medio Oriente e Africa) dove il suo passato dinamismo non è stato gradito (vedi crisi siriana, nucleare iraniano, caso Snowden).

Inoltre, mette in grave difficoltà la leadership russa dinanzi alla sua opinione pubblica, ancora galvanizzata dall’occupazione della Crimea; sarà dura per Putin giustificare una posizione di attesa e sostanziale immobilismo dinanzi alle centinaia di morti nell’Est dell’Ucraina. In più, le sue esitazioni indeboliscono la sua presa sulle popolazioni russofone, che le percepiscono come un tradimento e un abbandono.

Dinanzi al crescere del livello dello scontro imposto da Kiev, con interventi armati sempre più massicci, Mosca non può rispondere con un’azione armata risolutiva, perché sa bene che il prezzo politico e soprattutto economico sarebbe per lei insostenibile (e lo è già adesso, di qui tutta la voglia di ricomporre la questione); resta la necessità di non abbandonare i separatisti (perché neanche questo può permettersi, pena una colossale perdita di credibilità) mandando volontari, reparti speciali (vedi battaglione Vostok), armi e altri aiuti, che permettano il prosieguo della lotta e dunque della crisi; appunto.

Con il cronicizzarsi della vicenda, e con il crescere delle perdite da ambo le parti, Putin sarà costretto dalla pressione della sua opinione pubblica e dalla forza delle cose all’unica reazione vera contro l’Ucraina e l’Europa: l’interruzione delle forniture di gas, proprio quello che non vuole e che vorrebbe evitare più d’ogni altra cosa (la decisione di Gazprom del 16 giugno di rompere le trattative con Kiev –  riservandosi di fornire ulteriori partite di gas solo previo pagamento anticipato – e il contemporaneo avvertimento all’Europa che, se l’Ucraina dovesse prelevare dalle condotte metano destinato alla Ue, il flusso verrebbe sospeso, oltre ad essere un ulteriore avviso, è un passo che lascia a Mosca la pratica discrezionalità sul prosieguo delle forniture). Un simile atto, infatti, da un canto priverebbe la Russia dei proventi di quelle vendite, indispensabili alla sua economia troppo dipendente dagli idrocarburi (i proventi del famoso contratto cinese sono ancora da venire); dall’altro costringerebbe l’Europa a compattarsi in un fronte unico, spingendola in braccio agli Usa.

Gli Stati Uniti si troverebbero così in una condizione ideale: la Superpotenza chiamata in soccorso dai deboli europei in balia della “Russia cattiva”; gli Usa non sarebbero accusati di ingerenza negli affari del Vecchio Continente, perché sarebbero quegli Stati a chiedergli la soluzione dei loro problemi, e rimarrebbero signori assoluti del G7 dopo aver estromesso la Russia, mutuando nei decenni futuri la storica dipendenza dell’Europa da Washington che rischiava ultimamente d’appannarsi.

Quanto a risolverli quei problemi è tutt’altro discorso; i viaggi di Obama in giro per l’Europa a pubblicizzare le tecnologie americane di fracking per estrarre lo shale gas, somigliano tanto a quelli di Reagan negli anni ’80, quando proponeva all’Europa la bufala dello scudo stellare; entrambi estremamente costosi, entrambi proposti come un salvataggio, entrambi interamente a carico dei Paesi europei.

Per tutte queste ragioni Obama spegne la possibilità di un dialogo con la Russia e spinge Kiev all’uso della forza, senza batter ciglio sui tanti morti anche civili che questo comporta, come se l’unico sangue che conti sia quello versato a Euromaidan e non quello dell’Est Ucraina o di Odessa.

L’Europa è tornata al centro d’uno scontro fra potenze, ma, ancora una volta si scopre irrilevante, come e più del passato, priva di forza politica e di capacità di decisione. Questa debolezza le dà anche la consapevolezza che sarà lei a pagare il conto della crisi, perché, a differenza dei tempi passati, la superpotenza che adesso si degna di “salvarla dai cattivi”, di lei non ha alcun bisogno, anzi. È una semplice spettatrice, pagante, preoccupata di non rompere troppo con la Russia, con cui dovrà comunque trovare modo di collaborare.

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