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Le brutalità del regime saudita contro sciiti e immigrati

Il Trono di Spade saudita non limita la sua nefasta azione distruttiva allo Yemen o al Qatar, orchestrata dal principe guerriero, Mohammed Bin Salman, ma la rivolge anche all’interno del suo territorio contro sciiti, donne e immigrati.

L’Arabia Saudita è un Paese ricco grazie alle enormi esportazioni di petrolio, governato da una famiglia che impersona una nazione e che spende una fortuna per garantirsi il trono e la successione. Dall’avvento di re Salman al trono nel 2015, il regime ha soffocato i cittadini con 33 miliardi di dollari in regali, vantandosi di essere un Paese membro del G20.

Al di là del lato fantasioso dei petrodollari, molti analisti sostengono che il regno stia strisciando verso una crisi pericolosa difficile da affrontare per il governo saudita, incapace con tutte le sue ricchezze, a guidare un Paese in crisi poiché presto non riuscirà a rispondere alle esigenze della nazione.

Sciiti del Paese

La minoranza sciita è sempre stata sottoposta a discriminazioni politiche, economiche, culturali e religiose. Gli sciiti, residenti nella provincia orientale, sono sistematicamente privati dei loro diritti fondamentali e non possono occupare posti chiave nello Stato wahhabita.

Politicamente ed economicamente, gli sciiti sono una classe deprivata della società. Nella struttura di potere, gli sciiti non hanno assolutamente posto, dal momento che i governanti sauditi li vedono come un rischio alla loro regola a causa dell’ideologia sciita che rigetta fortemente l’autoritarismo e la tirannia.  Economicamente, le aree popolate dagli sciiti sono le più povere del regno anche se si trovano su riserve di petrolio enormi. I 300mila musulmani sciiti della Provincia Orientale vivono in  condizioni di vita inferiori rispetto ad altre aree. Non possono servire nei posti governativi o addirittura in quelli provinciali come coprire la carica di sindaco.

Brutale repressione del regime in Awamiyah e distruzione di Al-Mosara

Awamiyah, una città di 30mila abitanti del distretto di Qatif a maggioranza musulmana sciita, ha assistito ad un aumento delle proteste anti-regime e ad una conseguente repressione, mentre Riyadh ha insistito per distruggere lo storico quartiere di al-Mosara, affermando che le strade strette del quartiere sono diventate nascondiglio per i militanti ritenuti dietro gli attacchi alle forze di sicurezza della regione. Le forze di sicurezza dotate di armi pesanti sono state schierate in Awamiyah dal 10 maggio, a seguito di forti scontri tra le forze del regime e i locali che protestano contro la brutale repressione, con oltre 30 civili uccisi negli ultimi tre mesi.

Nell’ultimo incidente, gli attivisti hanno riferito che i sauditi hanno ucciso due fratelli, identificati come Ali Mahdi al-Sobeiti e Hussain Abdullah al-Sobeiti, sulla strada nel sobborgo di Awamiyah. Le forze di regime saudita hanno imposto un assedio alla regione bloccando le strade principali e limitando il movimento dei cittadini locali. Le forze del regime di Riyadh hanno inoltre istituito barricate e punti di sicurezza per impedire alle persone di organizzare qualsiasi raduno o manifestazione di protesta.

Nell’ottica di impedire che le notizie della brutale repressione si diffondano nel mondo esterno, le autorità saudite hanno chiuso anche i servizi internet e mobili in tutta la zona. La città di Awamiyah è attualmente assediata dalle forze del regime saudita. Awamiyah era la casa dello Sceicco Nimr al-Nimr, un religioso sciita di alto rango, impiccato ingiustamente nel gennaio dello scorso anno per aver richiesto i diritti legittimi dei residenti della regione.

Amnesty: la pena di morte usata come arma politica contro la minoranza sciita

Il 12 luglio, Amnesty International ha rilasciato una dichiarazione secondo cui il regime saudita sta brutalmente silenziando la minoranza sciita attraverso esecuzioni capitali. “Queste esecuzioni brutali sono l’ultimo atto della persecuzione continua delle autorità saudita della minoranza sciita. La pena di morte è stata messa in campo come un’arma politica per punirli delle proteste e indurre  gli altri al silenzio”.

Status delle donne e degli immigrati in Arabia Saudita

Molti ricercatori sociali confrontano le condizioni delle donne in Arabia Saudita alle donne sotto il regime dell’apartheid del Sudafrica crollato negli anni ’90. Devono vivere sotto il comando del loro “wali” o guardiano (di solito padre o marito) dalla nascita alla morte. Le donne dell’Arabia Saudita hanno comunque iniziato a combattere contro la diseguaglianza e gli stereotipi falsi dei quali sono vittime. Vogliono invertire la visione sociale che le marginalizza a causa della loro fonte di “ogni male e miseria”.

Quanto alle condizioni degli immigrati, per i circa nove milioni di lavoratori stranieri attivi in Arabia Saudita non esiste alcuna legge che garantisca i livelli di retribuzione, non possono lasciare il Paese o addirittura cambiare il loro posto di lavoro senza il permesso dei loro datori di lavoro. Le donne immigrate vengono contrabbandate per lavoro forzato e persino abusi sessuali. La mancanza di dati rende difficile determinare quante donne sono sottoposte a contrabbando ogni anno o quante di loro sono sottoposte ad abusi.

Malgrado le segnalazioni di tali violazioni, a sorpresa di tutti, l’Arabia Saudita è stata eletta membro del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite nel 2015. Le condizioni dei diritti umani nella monarchia ricca di petrolio sono disastrose, tuttavia il regime rimane un alleato delle potenze occidentali che non risparmiano scuse per attaccare molti Paesi per la violazioni dei diritti umani, ma non nascondono mai il loro sostegno militare e diplomatico a Riyadh.

di Cristina Amoroso

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