Politiche americane al centro del traffico di esseri umani
Le politiche americane sono la causa principale del traffico di esseri umani nel mondo. Questa è la risposta dell’Iran al nuovo rapporto sul traffico e sfruttamento di esseri umani pubblicato dal Dipartimento di Stato statunitense il 27 giugno, respingendo le dichiarazioni ingiustificate del rapporto rivolte al Paese.
“La causa principale del traffico di esseri umani dovrebbe essere vista nelle politiche unilaterali, interventiste ed aggressive, nonché fautrici di occupazioni, guerre di attrito, terrorismo e genocidio, in gran parte vi danno una mano le forze militari e di sicurezza degli Stati Uniti e di alcuni suoi alleati”, ha dichiarato giovedì il portavoce del ministro degli Esteri iraniano Bahram Qassemi.
La relazione, pubblicata dal Dipartimento di Stato Usa il 27 giugno, ha descritto l’Iran come fonte, luogo di transito e destinazione per uomini, donne e bambini sottoposti a tratta di esseri umani. Qassemi ha condannato duramente le “accuse senza fondamento” contro l’Iran ed ha sottolineato che gli Stati Uniti “mancano della competenza e della legittimità necessarie” per elaborare tali relazioni contro altri Paesi. Queste relazioni sono “unilaterali, polarizzate, politiche e basate su doppie norme”, e mirano a rovinare l’immagine della Repubblica Islamica.
Il Segretario di Stato americano Rex Tillerson insieme all’Advisor del presidente, Ivanka Trump, hanno presentato il 17° rapporto sul traffico degli esseri umani in una cerimonia ufficiale, dichiarando che la fine del traffico di esseri umani è stata sia negli interessi morali che strategici degli Stati Uniti, descrivendo lo sforzo come “una priorità importante della politica estera” per l’amministrazione.
Dalla graduatoria di 187 Paesi tarata sugli standard minimi previsti dal Trafficking Victims Protection, la legge statunitense per il contrasto al traffico degli esseri umani, si deduce l’ipocrita interferenza politica del governo Usa nel redigere tale rapporto annuale.
Il primo livello, definito Tier 1, a cui appartengono tutti i Paesi dell’Europa occidentale – compresa l’Italia – è assegnato ai governi che rispettano pienamente gli standard americani. Il secondo, chiamato Tier 2, riguarda Paesi come Croazia, Estonia, Lettonia e Islanda, che non rientrano in questi criteri minimi, ma che hanno compiuto sforzi significativi per raggiungerli.
Il terzo livello – la cosiddetta Watchlist – è destinato alle nazioni, come Ungheria e Bulgaria per esempio, in cui il fenomeno della schiavitù è talmente diffuso che, a prescindere dall’intervento pubblico e dalla volontà politica del governo, risulta difficilmente contrastabile. L’ultimo livello, il Tier 3, descrive i Paesi che non solo non soddisfano gli standard, ma non fanno nulla per migliorare la situazione.
Quest’anno al livello più basso troviamo Cina, la Russia, la Corea del Nord, il Venezuela, Cuba, l’Uzbekistan, insieme al Sudan, alla Repubblica Democratica del Congo, alla Repubblica del Congo, allo Zimbabwe, alla Guinea-Bissau.
Secondo la legge degli Stati Uniti, la retrocessione di questi Paesi agli ultimi posti della lista può innescare sanzioni che limitano il ricorso di questi Paesi agli aiuti internazionali e l’accesso ai mercati e al sistema bancario statunitense.
Immediate le reazioni. La portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, ha parlato di “giudizi unilaterali e arbitrari”. Il ministero degli Esteri russo ha espresso “l’indignazione” del governo. La responsabilità del governo degli Stati Uniti è evidente. Quel governo non dovrebbe e non può rinunciare alla sua responsabilità deviando le attenzioni da questa importante questione e livellando le accuse sbagliate e senza fondamento contro altri Paesi.
di Cristina Amoroso