Abdel Elsalam, non si può morire così
di Adelaide Conti
Abdel Elsalam Ahmed Eldanf, l’operaio travolto ed ucciso qualche giorno fa a Piacenza durante un picchetto davanti all’azienda in cui lavorava, era dall’altra parte della barricata.
Quella parte, composta da operai precari, che chiedono più garanzie ai loro datori di lavoro. Lui, lavoratore con un contratto a tempo indeterminato, aveva scelto di stare a fianco dei suoi colleghi. Dolore, sconcerto e rabbia sono ormai sentimenti costanti. In questo caso, senza cadere nelle retorica, il dolore va raccontato. Anzi, denunciato. Il dolore dei tanti immigrati (e non solo) che sono costretti ad accettare condizioni di lavoro spesso disumane. Cosa è accaduto quella notte: in seguito ad un’assemblea dei lavoratori per discutere del mancato rispetto degli accordi sottoscritti sulle assunzioni dei precari a tempo indeterminato, gli operai, di fronte al comportamento dell’azienda, hanno deciso di iniziare uno sciopero immediato. Abdel si è unito al picchetto. Un camion in uscita dall’azienda, sotto lo sguardo degli agenti di polizia, lo ha travolto uccidendolo. Un gesto il suo che racconta molto di più della semplice volontà di protestare, ma il coraggio e la volontà di non girarsi dall’altra parte e accettare le possibili conseguenze. Nel suo caso, drammatiche. Abdel Elsalam lascia cinque figli.
Sabato scorso una manifestazione ha sfilato per le vie di Piacenza per testimoniare vicinanza alla famiglia dell’operaio ucciso e per lanciare un grido di protesta. Con la gente a sfilare c’erano i sindacati. Quei sindacati che, forse, in questi anni non si sono battuti come avrebbero dovuto. Ammettiamolo, la battaglia per i diritti sul lavoro, almeno in alcuni settori lavorativi, negli ultimi anni si è fatta ancora più dura. E’ questo la dice lunga sulla bontà del jobs act. Tuttavia ci sono realtà che non possono essere trascurate. Una di queste è quella che fa riferimento al settore della logistica. Un modo, questo, in cui regna il caos, dove parole come diritti e tutele sono svuotate di significato. Un mondo ancora tutto da raccontare.
I lavoratori impegnati nel trasporto delle merci sono spesso costretti a subire trattamenti che ricordano le modalità di una vecchia e odiosa schiavitù. La potremmo chiamare schiavitù 2.0: orari massacranti, paghe non adeguate e dulcis in fundo contratti a tempo. Senza contare la guerra che sono costretti a farsi tra di loro per accaparrarsi un posto. Un vero far west, conosciuto e frequentato dai proprietari di aziende. Tutto questo avviene alla luce del sole e delle Istituzioni. Istituzioni che, appunto, non riescono a mettere in atto strategie capaci di evitare lotte di classe. Tutto ciò, dovrebbe essere uno dei punti prioritari dell’agenda politica. Ma tant’è. Il calendario dell’agenda politica non sembra aggiornato a tale proposito. Si parla senza sosta delle riforma della Costituzione, tralasciando problemi che affliggono la nostra società. Di lavoro si deve vivere, non morire.
Succede così che allo sconcerto per ciò che è accaduto ad Abdel Elsalam subentri il disappunto, che sfocia nella rabbia: figlia della consapevolezza. Il turbamento è (dovrebbe essere?) di tutti. Esso deriva dalla constatazione che la responsabilità dell’accaduto è da addebitare ad un’economia che antepone sempre più frequentemente il profitto al rispetto del lavoratore. In uno scenario del genere, in cui le regole sono quasi sempre studiate per favorire i datori di lavoro (padroni italiani e stranieri preoccupati unicamente di fare cassa) non è facile immaginare un futuro più roseo. Quelllo di Abdel, poi, si è interrotto drammaticamente la notte del 14 settembre.
Ci auguriamo che la Procura indaghi per accertare la dinamica dell’accaduto ed eventuali responsabilità. Perché non vorremmo mai che al dolore per la sua triste fine si aggiungesse quello di non arrivare alla verità. Giacché si parla di un incidente.