Un’insofferente (e serva) Europa balbetta sul rinnovo delle sanzioni alla Russia
di Salvo Ardizzone
A luglio la Ue dovrà decidere se prolungare le sanzioni alla Russia e sotto l’unanimità ostentata da ultimo alla recente riunione del G7, i malumori e le voci di dissenso si stanno moltiplicando.
La lista degli Stati che in modo sempre più manifesto dimostrano insofferenza per misure che li danneggiano pesantemente si allunga continuamente: a Italia, Grecia, Cipro, Ungheria, Bulgaria si stanno aggiungendo Francia, Spagna, Austria, Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca ad opporsi al fronte di Inghilterra, Polonia e Paesi Baltici, decisi a seguire fino in fondo i voleri di Washington. E che il clima stia cambiando lo attesta la prevista partecipazione di Juncker all’International Economic Forum di S. Pietroburgo (16-18 giugno), l’equivalente russo di Davos, una partecipazione impensabile un anno fa.
La stessa Germania, che per bocca della Merkel ha fin’ora mostrato a parole intransigenza (salvo fare affari sottobanco, vedi il raddoppio del North Stream e le massicce triangolazioni con Mosca tramite la Bielorussia), sta ammorbidendo rapidamente le sue posizioni.
È stato il ministro degli Esteri Steimeier a prendere atto pubblicamente della spaccatura sempre più evidente fra i Paesi europei, ed il ministro dell’Economia Sigmund Gabriel gli ha fatto eco dicendo senza mezzi termini che l’isolamento non è affatto utile e che la Russia si è dimostrata un partner affidabile, citando come esempio la difficile trattativa sul nucleare iraniano.
Per Berlino, il cuore del problema è il timore che vada in pezzi quanto resta della coesione politica della Ue (assai poco in vero) qualora di dovesse arrivare a un muro contro muro, aggravato dalle fortissime pressioni di Washington sempre più irritata dal cambio del clima in atto nelle Cancellerie europee.
Per questo il Governo tedesco sta lavorando nella massima discrezione ad un compromesso che pur non rinnegando le sanzioni le ammorbidisca; un compromesso che pare non incontrare la completa chiusura di polacchi e baltici, a condizione di un’accresciuta presenza militare della Nato sui loro territori, di cui si discuterà al prossimo summit dell’Alleanza a luglio.
D’altronde, a favore d’un compromesso giocano almeno altri due fattori: l’economia russa sta tornando a respirare, sia grazie alle misure prese a Mosca per sostenerla, sia, e soprattutto, grazie alla spinta del rialzo del prezzo di petrolio e gas che si sono allontanati di parecchio dai minimi di fine 2015. Insistere cocciutamente a proprio danno contro chi può resistere non ha molto senso; e ne ha ancor meno se si tiene conto della rilevanza ineludibile acquisita dal Cremlino nella soluzione delle crisi mediorientali e non solo.
Inoltre, è ormai chiaro a tutti, anche ai prevenuti, che la mancata completa implementazione degli accordi di Minsk non è da addebitarsi a Mosca, ma in larga parte proprio agli ucraini. Lo stesso Fmi deve ancora decidere lo sblocco di una tranche di aiuti di 1,7 Mld di dollari congelata da mesi in mancanza di garanzie concrete da Kiev.
Il fatto è che Poroshenko, ormai da due anni Presidente, è sempre più ostaggio (e complice) delle bande di oligarchi che stanno spolpando le ultime risorse del Paese, che affonda in un’irreversibile crisi economica, sociale e politica. Né hanno dato il minimo aiuto, anzi, il contrario, la massa di consulenti, manager e politici vari imposti dall’Occidente, da ultimo l’ex segretario generale della Nato Fogh Rasmussen.
Uno stallo perfettamente funzionale al ruolo di colonia che le è stato imposto, ma che fa dell’Ucraina un Paese assolutamente instabile, che sta irrimediabilmente naufragando.
Difficile tenere tutto insieme, e soprattutto in un contesto senz’anima caratterizzato da una sudditanza antica come l’Europa, ma le ragioni dell’interesse dei vari Stati, e più che mai in una situazione di difficoltà come l’attuale, è improbabile che non finiscano per incidere nelle scelte.