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L’islam e il Sufismo nella cultura indo-persiana

di Anastasia Maniglio

La lingua persiana parlata in India è la stessa dal Sind al Bengala. Questo Persiano è il nostro Dari. Le lingue indiane differiscono di gruppo in gruppo e cambiano (i loro vernacoli) ogni cento chilometri. Ma il Persiano è lo stesso su un’area di quattromila parsanghe” – Amir Khosrow

La praticità ci porta a semplificare ed etichettare fenomeni in realtà molto più complessi, come la distinzione tra “mondo indiano” e “mondo persiano”.

Già dal 2° millennio a. C., questi due “mondi” sono connessi da legami linguistici, ad esempio le lingue indo-arie (del nord dell’India) e quelle iraniche sono considerate appartenenti ad un unico gruppo. Ma è col passare del tempo che ci si rende meglio conto di questo cosmopolitismo: nel 3° secolo d.C., a Bactria, le monete mettono insieme raffigurazioni di ambiente indù, con scritte in Greco in lingue iraniche, o su alcune piastrelle si notano devoti kushana (dinastia indiana del tempo) accostati a divinità talvolta greche, talaltra appartenenti allo zoroastrismo, all’induismo o al mazdeismo.

Per quanto riguarda l’ambito religioso, e in particolare il Sufismo, presente in quest’area, sono doverose delle considerazioni preliminari.

Gli Arabi musulmani arrivano in Persia nel 7° secolo (quindi in epoca sasanide), portando a una conversione dalla religione zoroastriana, rapida per alcune classi sociali, più lenta per altre, fino al 9° secolo. Durante l’epoca samanide il Corano è tradotto in Persiano. Musulmani sono i Khorasmshah, i Tahiridi, i Saffaridi, Samanidi, Selgiuchidi, Ilkhanidi, Timuridi, Safavidi, Ghuridi, Ghaznavidi, Buyidi, Chagatay…

Le prime comparse dell’islam in India sono da far risalire almeno al 711, ma l’area non è particolarmente fertile da far stabilire gli Arabi in quel luogo in modo permanente. La famiglia Habbari inizia a governare nel Sind nell’841, creando uno Stato semi-indipendente fedele al califfato abbaside di Baghdad (finché non arrivano qui i Ghaznavidi nel 1024). Gli intellettuali indù, guidati da un filosofo di nome Shankara (788-850), si difendono dalle critiche di idolatria mosse loro dai musulmani.

Nell’epoca ghaznavide numerosi studiosi che scrivono in Persiano si trasferiscono in India (un’eccezione all’uso del Persiano è rappresentata da Biruni, che scrive in Arabo riguardo al Panjab e in particolare Lahore, una delle capitali ghaznavidi); nel 12° secolo, i Ghuridi, musulmani, conquistano Ghazna e spostano la capitale da Lahore a Delhi. Il 13°-14° secolo sono quelli che vedono nell’India del Sultanato di Delhi (1206-1526) molti sultani provenienti dal Centrasia, che sono turchi persianizzati (idem i successivi Mughal, 1526-1739). L’ultimo imperatore mughal è Mohammed Shah, quando Nader Shah invade l’India. Nonostante il potere sia nelle mani dei musulmani, questi non forzano mai gli indù a convertirsi all’islam: andrebbe anche contro i profitti del governo, in quanto i non musulmani sono costretti a pagare una tassa (la jizya).

Biografie e antologie letterarie, agiografie, manuali d’amministrazione, belles-lettres, trattati etici, autobiografie, raccolte di poesie (le biblioteche si trovano nel Deccan, nel Gujarat, nel Bengal ma anche nelle province a sud come a Madras)… tutti i generi letterari vengono esplorati in quella produzione “contaminata” (ossia fatta di elementi islamici e indù insieme, nell’aspetto linguistico e contenutistico); spesso gli scrittori sono bilingue o nel corso della loro vita si trasferiscono da un posto all’altro.

Il primo trattato sul Sufismo in Persiano è scritto da Hojviri, Kashf al-mahjub, nel periodo ghaznavide; durante il sultanato invece si distinguono le opere Fawaʾed al-foʾad di Amir Hasan Sejzi Dehlavi e Nafaʾes al-anfas wa lataʾef al-alfaz di Rokn-al-Din di Kashan.

Il Sufismo arriva in India con l’arrivo dell’islam, ma si diffonde soprattutto durante il Sultanato di Delhi. In epoca ghaznavide l’educazione avviene nelle madaris e nelle moschee: al centro dell’insegnamento il Corano e gli ahadith. Si istituisce inoltre la Jama’at Khane o Khanqah, dove si effettua la pratica mistica.

Secondo Bausani, i più grandi poeti persiani sono sufi e i più grandi sufi sono persiani, e la Persia dà la lingua al Sufismo, mentre le opere sufi in Arabo sarebbero “più contorte e frammentate”.

A formare una coscienza mistica non concorre soltanto l’islam in India, ma anche una forma particolare di induismo, il movimento Bhakti, quindi si tratterebbe di sincretismo che permette ai sufi di non essere mai visti come “alieni”. Si dice, ad esempio, che uno dei discepoli di Muin-ud-din Cishti (1141-1236), stabilitosi in un piccolo villaggio del Panjab per vivere da santo eremita, sia venerato dagli abitanti hindu, raccogliendo una vasta cerchia di discepoli che lo invocano con l’appellativo reverenziale riservato ai Sindhu, Baba Farid. Lo stesso accade anche a Baba Nur ad-Din (1377-1438) che è addirittura soprannominato rishi, saggio veggente, e tramite col divino per i comuni mortali. I suoi seguaci danno vita alla Rishiyyah, confraternita ancora oggi molto diffusa in Kashmir (dove Baba Nur ad-Din è stato per secoli venerato come santo patrono), che fa visita (ziyarat) alle tombe dei santi, intona canti devozionali, attua il culto dei più sapienti, dei più anziani, dei maestri e questo fa pensare che si tratti di un’influenza dell’induismo, politeista.

L’Ordine che ha maggior importanza in Hindustan è la Cishtiyya, fondata dal maestro sufi citato sopra (Muin-ud-din Cishti), proveniente da Samarcanda e stabilitosi in India. Attivi in ambito politico sono gli ordini Suhrawardiya e Naqshbandiya. Diffuso particolarmente fra i ceti alti e le élites locali è l’ordine Sattariya. Fra gli ordini che invece rifiutano in toto la vita mondana e i cui discepoli vagano per il Paese secondo le abitudini degli omologhi hindu, i Sadhu, ci sono la Malamatiyya e la Qalandariyya. I Malamati, letteralmente “quelli del biasimo”, vivono in povertà assoluta e rifiutano le elemosine, mentre ai Qalandar sono attribuiti poteri soprannaturali (i cosiddetti “Fachiri”).

I sufi indiani citano spesso i versi di Sa’di, Rumi, Hafez in Persiano nelle confraternite.

Ernst (1950) scrive un articolo riguardo alla probabile influenza tra Sufismo e Induismo e alle connessioni tra la pratica dello yoga e il misticismo islamico (“Situating Sufism and Yoga” in Journal of the Royal Asiatic Society, terza serie, vol. 15, n°1, aprile 2005, pp. 15-43). Infatti, opere sullo yoga sono tradotte abbondantemente in Arabo, Persiano, Urdu, ecc. Per non contare che il primo testo con le posizioni dello yoga è in Persiano e compare nella corte mughal. Senza soffermarsi troppo sullo yoga e distogliere l’attenzione dall’obiettivo del mio lavoro, è utile brevemente notare che lo yoga permette di effettuare un esercizio sulla respirazione proprio anche del Sufismo, oppure un’altra cosa che hanno in comune è la ripetizione di determinate frasi coadiuvanti l’esperienza spirituale, o ancora il visualizzare un’immagine in corrispondenza di determinate parti del corpo.

In un Paese in cui la cremazione è il metodo funerario favorito, entrambi i gruppi praticano la sepoltura. Sembra evidente che molti governatori musulmani conoscano lo yoga.

In conclusione, sono vari gli ambiti che ci forniscono del materiale per poter affermare la continuità esistente nel tempo tra due culture (indiana e persiana) che in realtà si dimostrano un unicum: architettura, letteratura, scultura, pittura, tradizioni religiose, numismatica… Ogni ambito meriterebbe un’analisi approfondita che già in realtà è stata trattata da vari studiosi, tra i quali Muzaffar Alam (1947) e il citato Ernst. Difficile, in alcuni casi, stabilire quale tradizione abbia influenzato l’altra, o se ci sia veramente una cultura dominante impostasi a scapito di un’altra; fatto sta che le interazioni sono frequenti e non casuali.

La cultura indo-persiana è di tutti coloro che, assumendo ruoli diversi nel tempo nella società, si sono trovati a vivere o passare da questo esteso territorio.

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