Cina: ritorna la violenza ad Hong Kong
A Hong Kong la tensione per la protesta contro la riforma elettorale voluta da Pechino, dopo una fase di stanca, ha avuto una fiammata martedì 14, con i più violenti scontri dall’inizio del confronto. Nelle scorse settimane, dal 28 settembre, le arterie principali della città erano state bloccate dai manifestanti e la dura repressione della polizia, invece di soffocarla, avevano fatto dilagare la protesta che s’era spinta a chiedere le dimissioni di Leung Chung Ying, capo del Governo locale.
A quel punto Pechino, che da dietro tira le fila, ha scelto la linea morbida facendo decantare la tensione; ormai erano rimasti in pochi nelle strade e lunedì 13 la polizia ha cominciato a rimuovere le barricate erette dai dimostranti ad Admiralty e Mongkok, i quartieri del potere e dei ministeri. Lo ha fatto con discrezione, senza tenuta antisommossa e dichiarando che l’intervento era volto a migliorare il traffico quasi bloccato da 15 giorni, non contro i dimostranti, che sono stati colti di sorpresa dall’azione. È stata una prova generale per saggiare la capacità di reazione del Movimento che nelle settimane precedenti aveva sorpreso per la sua vitalità.
All’alba di martedì, i poliziotti sono entrati ancora in azione per rimuovere le barricate e i blocchi che ancora paralizzavano il centro della città; i blitz si sono succeduti per tutta la giornata fino a tarda notte, e stavolta gli scontri sono stati i più duri dall’inizio della protesta, con numerosi feriti e almeno una quarantina di arresti. Dopo la drammatica nottata, nella mattina di mercoledì, alcune centinaia di giovani hanno voluto compiere il gesto dimostrativo di rioccupare una delle strade sgombrate ieri, come segnale che il Movimento è ancora vivo.
Vivo, si, ma stanco, e nel frattempo continua a montare il malumore e l’ostilità di vasta parte della città contro chi ha sostanzialmente paralizzato Hong Kong per diversi giorni; in parte provengono dalle triadi, organizzazioni criminali vicine al potere e dunque a Pechino, ma in parte anche da quella vasta parte della società che non sente le ragioni della protesta e ne viene penalizzata; lunedì erano i tassisti a protestare, e con loro molti altri. Concetti come libertà e diritti civili sono parole vuote per i molti che preferiscono arricchirsi all’ombra del Dragone.
D’altro canto, la chiusura assoluta di Pechino dinanzi a quella che è stata definita la “rivoluzione degli ombrelli” è una scelta obbligata; un cedimento alla “via democratica” nella selezione dei governanti spingerebbe inevitabilmente il resto della Cina a richieste analoghe, e il Pcc in questo momento, con pericoli di crisi economica interna, lotta alla corruzione e fra vecchia e nuova classe dirigente, non può assolutamente permettersi di allentare le mani dalle leve del potere.
Difficilmente il confronto fra Leung e i rappresentanti del Movimento condurrà a riforme vere; è assai più probabile che ci possano essere modifiche marginali e di facciata alla legge elettorale da poter sventolare dinanzi ai media, ma tali da assicurare comunque a Pechino il controllo. Una soluzione insoddisfacente per quella parte di cittadini di Hong Kong che aspirano alla democrazia; ma, appunto, sono solo una parte, e il potere ha imparato bene come sfiancarli e metterli nell’angolo senza farne dei martiri pericolosi.
A tal proposito, sono illuminanti sia il fatto che il Governo, per lanciare una nuova prova di forza, abbia atteso che la fase di stanca del Movimento coincidesse col crescere del malumore nel resto della città; sia l’annuncio, dato dal Segretario per la Sicurezza Lai Tung-Kwok, della rimozione degli agenti ripresi in un video mentre pestavano un dimostrante già ammanettato.
Non c’è che dire: per gli standard di quelle latitudini un’intelligente gestione del potere; la tragica lezione di Tienanmen è stata ampiamente metabolizzata: nel palcoscenico fortemente mediatico di Hong Kong eviterà inutili clamorosi autogol, di cui non ha alcun bisogno per mantenere strette le leve del comando.