Le colpe di Maliki nel pantano iracheno
La crisi che ha visto circa un terzo dell’Iraq passare in pochi giorni sotto il controllo dell’Isil, è soprattutto il frutto dell’inetta politica di al-Maliki; infatti l’invasione è avvenuta con pochi scontri relativamente intensi e molte entrate incruente, a volte quasi trionfali, delle milizie sunnite e degli ex soldati di Saddam in molte città e villaggi; i jihadisti di Baghdadi venivano spesso dietro, e non è che fossero poi i benvenuti.
Che la forza degli aggressori sia più mediatica che effettiva lo sa anche il Governo, come pure gli altri attori della scena, che non temono l’invasione di Baghdad o addirittura del Sud, dove gli attaccanti troverebbero kalashnikov spianati e non porte spalancate come nell’al-Anbar; il pericolo, quello si assai reale, è piuttosto di uno stabilizzarsi della situazione, con ondate di attentatori che passano al Sud per fare un inferno della vita nella capitale e nelle aree sciite, fino a rendere inevitabile il disintegrarsi del Paese. Ma tutto, anche delle aree ora separate da Baghdad.
Il fatto è che il fronte sunnita è unito solo da un elemento: l’odio verso le politiche settarie di Maliki, la sua gestione corrotta del potere, il suo apparato clientelare; per il resto è diviso praticamente su tutto. Baghdadi sogna il Califfato e punta allo scontro contro il mondo sciita, con un programma che non riguarda solo l’Iraq, ma spazia in Siria ed anche nella Giordania, dove pensa già di alimentare rivolte nel sud del Paese (sono almeno 2.500 i miliziani giordani già al seguito dell’Isil). Le bande irachene d’ispirazione confessionale sunnita, hanno un programma confuso che prevede semplicemente la riaffermazione dell’egemonia sulla componente sciita del Paese, come ai tempi di Saddam. Le forze d’ispirazione bahatista intendono negoziare col governo un progetto autonomista o, alla peggio, federativo da una posizione di forza conquistata con le armi e, a quanto pare, rappresentano la maggior parte delle milizie sunnite, quanto meno le più efficienti (come detto, molti sono ex militari).
Come si vede sono tre progetti diversi che non tarderanno a cozzare fra loro, e solo l’ottusità di Maliki ha permesso che interessi così diversi potessero saldarsi fra loro, quando la minima trattativa seria avrebbe potuto frantumare il loro fronte.
Il Premier ha fatto di tutto per distruggere quanto di buono era stato costruito attorno ai Sahwa (i Consigli del Risveglio), quando, nel periodo più buio dell’insorgenza qaedista, s’era ottenuta la collaborazione con le tribù sunnite per sradicare il terrorismo assassino e ricostruire faticosamente una collaborazione. Maliki, invece, s’è dedicato unicamente a costruire una propria struttura di potere, espellendo i sunniti da ogni centro decisionale e puntando a dividerli e metterli gli uni contro gli altri, attirandosi l’odio di tutti. Ora sa bene che un suo passo indietro sarebbe definitivo, e si rifiuta caparbiamente di farsi da parte, anche se è l’unica via per ottenere un compromesso politico e militare risolutivo, che isoli l’Isil dal grosso delle milizie sunnite. La riprova è il sostanziale fallimento dell’offensiva dell’Esercito su Tikrit, perché non può offrire nessun negoziato alla popolazione, e vincere con la sola forza bruta (ammesso che ci riuscisse, e al momento è pia illusione) non farebbe che incancrenire il problema.
Tuttavia, forte dei 92 seggi sui 328 ottenuti dal suo blocco di potere, malgrado le tante richieste nazionali e straniere di farsi da parte o, quanto meno, di aprire ad una coalizione di salvezza nazionale che includa sunniti e curdi, punta imperterrito a un terzo mandato, incurante che la matrice grettamente settaria da lui proposta, è divenuta elemento per una pericolosa frattura che potrebbe disintegrare l’intero Iraq, con drammatici contraccolpi in tutta la regione. Al-Maliki mira alla frattura del fronte avversario, ma non si rende conto che questo potrà avvenire solo dopo il collasso del suo sistema politico, perché, come detto, è quello che fa da collante alle diverse componenti sunnite.
Malgrado il momento di emergenza (o forse proprio per quello), nel nuovo parlamento s’è già prodotto uno stallo, con sunniti e curdi strenuamente contrari alla nomina di Maliki, e una crescente fronda sciita che vede fallimentare o peggio la sua esperienza di governo. Paradossalmente, però può addirittura tornargli utile la dichiarazione del grande ayatollah al-Sistani (tutt’altro che suo sostenitore), che ha esortato i deputati a far presto a nominare un Primo Ministro, vista la situazione, facendo superare le esitazioni di tanti su di lui.
Anche gli alleati dell’Iraq sono stanchi di questo personaggio, ma nel momento critico intendono sostenere il Paese, rinviando a dopo una transizione politica più ragionata. Gli Usa hanno assunto una posizione ambigua, rifiutando l’intervento aereo richiesto dal Governo e centellinando ancora le forniture di vecchi contratti militari; sulle vere ragioni di quest’atteggiamento ci sarebbe tanto da dire, a cominciare dagli interessi sauditi di destabilizzare l’Iraq, qui ci limitiamo a sottolineare come la cocciuta posizione di chiusura di Maliki faciliti Washington a fare “la sostenuta”, concedendo assai poco.
Assai diverso è il caso dell’Iran; Teheran, pur fornendo armi e materiali, con molta saggezza non intende farsi coinvolgere in un intervento diretto in Iraq, come già ha evitato in Siria, per impedire strumentalizzazioni soprattutto in un momento così delicato delle trattative del 5+1 sul nucleare. Tuttavia, pur non avendo alcun interesse specifico a premere per un coinvolgimento di sunniti e curdi nel Governo, è chiaro il suo giudizio nettamente negativo su un uomo – Maliki – che è divenuto “il problema”, e ha tutto l’interesse a individuare un altro soggetto capace di tutelare gli interessi dell’area sciita e non semplicemente i propri.
In questo scenario, sia Russia che anche gli Usa (al di là delle dichiarazioni di facciata) sarebbero ben felici d’un ruolo assai più assertivo di Teheran, che cavasse per loro le castagne dal fuoco, rimettendo fra i sogni il Califfato jihadista e le ambizioni di Riyadh su quel petrolio. Ma è proprio l’Iran a mostrare prudenza, consapevole dei rischi d’un coinvolgimento diretto, che potrebbe risolversi in una trappola più che militare, non si pone il punto, politica e diplomatica.
Per sapere come evolveranno le cose non occorrerà attendere troppo; la riflessione amara è sempre la stessa: l’ottusa avidità di pochi, talvolta di uno, finisce per ricadere sempre su tanti, che sono loro e solo loro a pagare.