Il Qatar e la folle corsa agli armamenti: nuovi equilibri si ridisegnano nel Golfo
Il Qatar è una piccola penisola brulla e rocciosa (sono 11mila chilometri quadrati) che dall’Arabia Saudita si protende nel Golfo Persico; un luogo dimenticato e infame fin quando gli idrocarburi (petrolio e gas) non ne hanno fatto un Paese sfacciatamente ricco, addirittura con il secondo Pil pro capite del mondo dopo il Lussemburgo. Ma quella non è una ricchezza per tutti: c’è un abisso fra i circa 400mila qatarioti autoctoni e il milione e mezzo d’immigrati (Pakistani, Bengalesi, Filippini, Cinesi e così via) che sono la forza lavoro del Paese.
Sarebbe potuto essere semplicemente un emirato da mille e una notte, come gli altri del Consiglio del Golfo diretto come cosa propria dall’Arabia Saudita, ma l’Emiro Ahmad al Thani, e ancor più il figlio Tamin, che dal giugno scorso l’ha sostituito, hanno mostrato un irrefrenabile attivismo nella politica estera, che l’hanno portato a posizioni opposte e inconciliabili col grande vicino saudita. Nel pantano siriano appoggia il Free Syrian Army, sempre più espressione della Fratellanza Musulmana, e altre realtà radicali, mentre l’Arabia foraggia la galassia salafita del Fronte Islamico. Ma è sull’Egitto che c’è stata la frattura vera, con il Qatar a sostenere ancora la Fratellanza, vista come fumo negli occhi da Ryhad, che aiuta con fiumi di petrodollari il Generale Al-Sisi. L’inevitabile rottura è stata ufficializzata con il ritiro dell’ambasciatore saudita da Doha, subito seguita da quelli del Bahrain e degli Emirati, motivata da non meglio definiti motivi di “sicurezza e stabilità del Paese” (come dire che il Qatar minaccia seriamente l’Arabia Saudita).
Il passo ha messo Doha in una posizione indubbiamente scomoda, ma l’Emiro non è tornato indietro, anzi, da un canto ha fatto passi verso una sia pur timida distensione verso Teheran (altra bestemmia alle orecchie saudite), dall’altro ha voluto dare mostra di non essere intimidito, volendo procedere ad un massiccio riarmo del piccolo Paese.
È accaduto al Dimdex 2014 svoltosi in Qatar, la mostra riservata alle aziende della Difesa che lì si svolge ogni due anni. Rassegne del genere, per la materia trattata e per i protagonisti, sono un ottimo termometro per valutare gli equilibri geopolitici e le intenzioni dei Paesi che vi partecipano. Infatti, per non scontentare Ryhad e gli altri Emiri del Golfo che al momento sono tra i migliori compratori di sistemi d’arma, sono state tante le delegazioni ufficiali che non si sono presentate, ma in qualche modo le aziende del settore c’erano in massa, e il Qatar ha fatto un vero shopping compulsivo, concretizzatosi nelle ultime ore del salone con l’annuncio di contratti o accordi per l’acquisizione di sistemi d’arma per oltre 20 mld di $.
Le Forze Armate dell’Emirato sono assai piccole, poco più di 8mila uomini l’Esercito, circa mille e cinquecento la Marina e all’incirca lo stesso l’Aviazione e francamente non si capisce chi dovrebbe usare tutti quei mezzi; ma in fondo lo stesso discorso (e forse ancora a maggior ragione) vale per gli stratosferici acquisti dell’Arabia Saudita, che affastella aerei sofisticati, carri, elicotteri e missili che non ha e non avrà mai a chi far utilizzare (soprattutto tenuto conto del livello tecnologico dei mezzi). Montagne di miliardi destinati a rimanere in hangar e depositi, condannati a deprezzarsi rapidamente fino a tramutarsi in ferri vecchi inutilizzabili.
Sia come sia, carri da battaglia Leopard 2 A7 e obici semoventi Pzh 2000 dalla Germania; sistemi antimissile Patriot Pac 3, elicotteri d’attacco Ah-64d Apache Longbow, Boeing 737 per sorveglianza aerea dagli Usa attraverso i canali privilegiati Fms (Foreign Military Sale); naviglio per il controllo costiero dalla Turchia; un requisito per l’acquisto di 72 aerei da combattimento di ultima generazione, poi ridotto a un più realistico numero di 24, da ripartire in parti uguali fra Usa e Europa; sono le più significative voci d’una sterminata lista della spesa, che vede ancora blindati, missili Hellfire e tanto, tantissimo ancora.
È evidente che si tratta d’un colossale spreco di denaro, destinato a rimanere un pacchiano atto dimostrativo nei confronti soprattutto dell’Arabia Saudita, perché mai quei mezzi potranno, se non in minima parte, essere integrati ed impiegati appena decentemente dalle Forze Armate qatariote. O più semplicemente un’assicurazione sulla propria sicurezza, pagata a suon di petrodollari alle potenze occidentali attraverso quelle acquisizioni.
Restano da notare alcune cose: la politica estera d’un Paese deve essere funzione della vocazione e degli interessi d’una Nazione, d’un Popolo, non può essere figlia delle irrazionali pulsioni di grandezza di chi si trova un portafogli gonfiato dal petrolio e gioca a fare la grande potenza, ficcandosi in tutte le crisi dell’area.
Secondo: è assolutamente comprensibile volersi affrancare da tutori, soprattutto se scomodi come l’Arabia Saudita, ma per farlo occorre costruire con pazienza una rete d’alleanze e d’interessi, soprattutto se se ne hanno le risorse, non muoversi sulla scena internazionale come un pachiderma, senza averne la stazza.
Per vedere come evolverà questa partita, come tante altre nell’area, non passerà troppo tempo; quando l’Iran si sarà lasciato alle spalle i danni delle sanzioni volute dai suoi nemici (Israele e Arabia Saudita in testa), tutti i dossier ancora aperti s’avvieranno a rapida sistemazione, e saranno tante cose a cambiare.