L’Egitto ritorna sotto gli scarponi dei Generali
È una cappa di piombo quella che è calata sull’Egitto: un mese fa, a Minya, a sud del Cairo, il Tribunale ha emesso 529 condanne a morte per la presunta partecipazione (o addirittura semplice approvazione) alla morte di un agente nello scorso agosto, dopo che Esercito e Polizia avevano massacrato un migliaio di Fratelli Musulmani. Ora, a fine aprile, in un nuovo maxi processo contro la Fratellanza, altri 682 cosiddetti “terroristi” (tra cui Mohammad Badie, anziana guida spirituale del Movimento) sono stati condannati a morte in un’udienza di pochi minuti. Sono “solo” 37 pene capitali sono state confermate fra i condannati di un mese fa, e probabilmente accadrà lo stesso anche con la nuova sentenza, ma, a parte la sconvolgente enormità di quelle condanne a morte, per tutti gli altri sarà il carcere a vita.
In questo momento si calcola che siano almeno in 16mila gli arrestati negli ultimi mesi per “terrorismo”; con questa accusa generica, che giustifica ogni abuso, vengono sottoposti a una carcerazione durissima militanti della Fratellanza e chiunque si sia opposto o semplicemente abbia dissentito dal regime instaurato dai militari. Anche i giornalisti vengono arrestati a diecine, imbavagliando i media che non sono mai stati tanto censurati.
In contemporanea con la seconda sentenza di Minya, un altro Tribunale del Cairo ha dichiarato fuorilegge il Movimento dei Giovani del 6 Aprile, il più importante della rivoluzione del 2011; per chi non lo conosce, si dichiarava laico, non violento ed ispirato alle socialdemocrazie europee per bocca dei suoi leader, che facevano sperare ingenuamente a troppi sedicenti esperti e politologi nostrani che, abbattuto il tiranno Mubarak, sotto le piramidi fosse sbocciata finalmente una democrazia matura. E invece quei leader, tra cui il fondatore Ahmed Maher, sono ora in cella, condannati a tre anni per aver protestato pacificamente contro una legge che vieta appunto ogni protesta dichiarandola illegale.
Fra un mese, un Egitto stremato dalla disperazione, dalla miseria, dalla violenza e sottoposto a una disinformazione ossessiva, andrà alle urne, secondo uno stucchevole copione predefinito, per “eleggere” il nuovo Faraone, quel Generale Al-Sisi che a luglio ha deposto Mohammed Morsi, lo stesso che lo aveva voluto Ministro della Difesa.
Le cosiddette élites economiche e politiche lo reclamano a gran voce, per garantire i propri interessi da troppo tempo turbati da disordini e incertezza; la gente è stanca ed è stata convinta di non avere alternative da una propaganda a senso unico che ha presentato Al-Sisi come il salvatore dal caos, e ha taciuto e distorto il resto senza alcun contraddittorio. La stessa Magistratura, un tempo capace di garantire una certa legalità, ora è divenuta un docile strumento di repressione, e non fiata dinanzi a condanne a morte di massa. Solo le Organizzazioni Umanitarie come Amnesty o Human Rights Watch hanno protestato, ma non c’è nessuno che le stia a sentire; i leader politici del mondo guardano altrove, al massimo postano ipocritamente qualche messaggio sui social.
Gli Stati Uniti, da parte loro, si sono sempre guardati dal chiamare “Golpe” i fatti di luglio, e per salvar la faccia, ma soprattutto per vedere come finiva la cosa, avevano sospeso gli aiuti militari più significativi ufficialmente “in attesa che la democrazia si consolidasse”. Evidentemente, arresti di massa, negazione dei diritti civili più elementari, condanne a morte di gruppo, eliminazione d’ogni libertà di stampa, hanno dimostrato all’Amministrazione Usa il compimento del processo democratico del nuovo regime egiziano, e il 27 aprile scorso hanno annunciato la ripresa delle forniture militari e la consegna di 10 elicotteri d’attacco Ah-64 Apache.
È pura quanto cinica ragione di stato: Washington ha un disperato bisogno che il più grande Paese arabo, cerniera fra Africa e Medio Oriente, rimanga saldamente ancorato al proprio campo; per gli Stati Uniti sarebbe un disastro incalcolabile se si verificasse uno scenario di tipo libico o prendesse il potere un Governo comunque ostile. Così, secondo l’antico detto dell’Amministrazione Usa: “saranno dei bastardi, ma sono i nostri bastardi”, continueranno a fornire armi e dollari finché i Generali obbediranno ai loro desiderata.
D’altronde Al-Sisi è sostenuto a spada tratta da Israele, che vede in lui un alleato più che prezioso, soprattutto ora che la situazione nell’area s’è fatta più scomoda per i suoi interessi: un Egitto ostile, o peggio del peggio, che s’alleasse in qualche modo con l’Iran, sarebbe una minaccia insostenibile per lo Stato ebraico.
E per ragioni analoghe il Generale è sponsorizzato con fiumi di petrodollari dall’Arabia Saudita (nemica giurata della Fratellanza Musulmana) che ha bisogno d’una solida sponda in campo arabo, capace di sostenerla nei suoi maneggi, soprattutto dinanzi alla crescita dell’Iran, che si sta liberando finalmente dalle sanzioni.
Sia come sia, una cosa è chiara: Al-Sisi e i suoi hanno posto un controllo totale sull’Egitto, e possono fare ormai ciò che vogliono, anzi, ciò che più conviene a loro e ai loro sponsor. Addio a un’altra “primavera”.