Scozia e Catalogna, dalla sudditanza all’indipendenza
Malgrado la globalizzazione e la cappa di quest’Europa che puzza di tecnocrati e di burocrazia, le radici dei Popoli resistono e urlano la propria voglia di vivere e d’affermare la propria esistenza.
Il 18 settembre si voterà per il referendum sull’indipendenza della Scozia, voluto fortemente dallo Scottish National Party di Alex Salmond, e i sorrisi di compatimento dei vari Cameron, Miliband e Clegg, stanno divenendo smorfie. A mano a mano che s’avvicina la data, nei sondaggi i “si” salgono vertiginosamente: erano al 31% a fine novembre, passati al 36% a febbraio e ora arrivati a oltre il 40%, secondo l’Agenzia Panelbase, coi “no” ridotti al 45% e circa il 15% d’indecisi.
A poco sono servite le minacce, formulate a febbraio dal Cancelliere dello Scacchiere Osborne e subito riprese dai leader dei partiti di Londra, d’impedire alla Scozia l’uso della Sterlina se il fronte indipendentista avesse vinto. Cameron e gli altri hanno cercato di strumentalizzare le parole del Governatore della Bank of England, il canadese Mark Carney, che a gennaio, in visita a Edimburgo, ha spiegato che in caso d’unione monetaria fra Scozia e Inghilterra, si dovrebbero evitare gli errori commessi dall’Eurozona, che l’hanno portata sulla soglia del collasso. Ma quello era un intervento tecnico che, correttamente, evidenziava le criticità da affrontare per evitare i guasti dell’Euro.
In realtà, Londra ha le armi spuntate verso Edimburgo: nei mari di sua competenza, la Scozia ha la più ampia riserva di petrolio dell’Unione Europea e, se mantenesse la Sterlina, Londra potrebbe continuare a giovarsi dei profitti derivanti dal loro sfruttamento. Inoltre, in caso del rifiuto dell’Inghilterra alla moneta unica, il nuovo stato scozzese potrebbe rifiutare di riconoscere la propria parte del debito pubblico britannico. La verità è che ci sarebbe spazio, e tanto, affinché i due governi possano adottare politiche economiche e fiscali separate ma coordinate. In fondo, già con la devoluzione amministrativa successiva al referendum del ’97, la Scozia ha un sistema giuridico autonomo che funziona, un parlamento che, sulle limitate competenze locali a lui affidate, dà risposte e un sistema scolastico separato.
Il Popolo scozzese se ne sta rendendo conto e ora anche i rappresentanti di Londra, se il Ministro per la Scozia Carmichael ha ammesso che si potrebbe verificare la nascita di un nuovo stato. Lo ha detto in un’intervista all’Observer nel corso della quale ha dichiarato anche che la vittoria dei “si” è possibile. Un’evidente ammissione di debolezza, come quella d’un Ministro dell’Esecutivo Cameron che, nell’anonimato, ha aperto a tale possibilità, e al mantenimento della Sterlina nei due Paesi. È dovuto intervenire ufficialmente Osborne per ribadire il parere negativo di Londra, ma il risultato non cambia: il fronte del “no” è in crisi e, dopo 300 anni, i destini dei due Popoli, uniti con la forza dalla Corona Inglese, potrebbero separarsi.
Il discorso è diverso per la Catalogna: ha l’economia più dinamica della Penisola Iberica e il suo Pil pro capite è assai più alto che nel resto della Spagna, inoltre il Catalano è una lingua romanza ben diversa dallo Spagnolo; per questo, a Madrid, fin dall’inizio son stati ben attenti a non sottovalutare quella voglia d’indipendenza che l’11 settembre scorso, nel giorno della Diada (quando Barcellona cadde in mano ai Borbone nel 1714), portò nelle strade almeno un milione e mezzo di persone a urlare il proprio no alla Spagna. Una simile folla su poco più di sette milioni di Catalani è un Popolo che si mobilita, e che si rispecchia trasversalmente nella Generalitat, il Parlamento di Barcellona, dove partiti di storia e cultura assai diversa, moderati, sinistra moderata, sinistra radicale, verdi, avevano fissato la data del 14 novembre del 2014 per il referendum sull’indipendenza, raccogliendo il 64% del voto parlamentare.
Il premier Rajoy ha subito compreso il pericolo del risvegliarsi dell’antico indipendentismo, e ha chiuso tutte le porte, presentando anche ricorso innanzi al Tribunale Costituzionale per fare annullare quella consultazione. La sentenza è arrivata puntuale: in 36 pagine i giudici hanno rigettato la risoluzione del Parlamento Catalano, ma, dinanzi alla compatta e manifesta volontà popolare, hanno schiuso la porta alla possibilità d’una modifica costituzionale che permetta alla Catalogna di pronunciarsi.
Nel frattempo, anche la Commissione Europea è scesa in campo con Rajoy: “Se una regione d’uno Stato membro si dichiara indipendente, diviene uno Stato terzo perdendo la qualifica di stato comunitario” ha detto. Una dichiarazione per spaventare gli imprenditori catalani, da sempre vocati all’export e ai mercati europei. Un intervento interessato, in soccorso d’una classe dirigente assolutamente prona a Bruxelles e soprattutto nell’ombra di Berlino, come abbiamo detto di recente.
Ma lo stop al referendum non significa sradicare la voglia d’indipendenza così diffusa in tutti gli strati della società catalana; Covergentia i Union di Artur Mas ed Esquerra Republicana di Oriol Junqueras, i due partiti più importanti, stanno già studiando come riprendere il percorso per separarsi da una Spagna, la cui classe dirigente segue da anni una politica che ha voltato le spalle alle proprie radici mediterranee, ed è incurante dei costi sociali che impone ai cittadini.
Scozia e Catalogna: due piccole Patrie con una storia antica, che vogliono riappropriarsi del proprio destino, che vogliono preservare le proprie radici.