Vendita armi iraniane all’Iraq, gli Usa chiedono spiegazioni
La notizia è che l’Iran ha sottoscritto un accordo del valore di 195 ml di $ per la fornitura di armi all’Iraq. Detta così sembrerebbe di poco conto, paragonata agli immensi contratti per sistemi d’arma siglati nell’area, ma in realtà dice tanto, visto che l’Iraq ha rapporti stretti con gli Usa (soprattutto in campo di forniture militari) e l’Iran sarebbe ancora sotto embargo di acquisto e vendita di armi, secondo quanto disposto dalla risoluzione 1747 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Il fatto è assai più complesso; andiamo alle motivazioni ufficiali: da alcuni mesi è in atto una violenta recrudescenza dell’attività terroristica condotta da formazioni di insorti sunniti, autonominatesi Isil (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) legate al network al Qaeda. La loro offensiva, che nel resto del Paese è stata portata con sanguinosi attentati, nella provincia di al Anbar (nel famoso triangolo sunnita a nord ovest di Baghdad che i soldati americani ricordano anche troppo bene) è sfociata in ribellione aperta, fino all’assunzione del controllo di città come Fallujah, e le forze di sicurezza hanno dovuto combattere aspre battaglie per riprendere in mano una situazione che, al momento, è tutt’altro che completamente ristabilita.
La ribellione, che ha nei jihadisti la sua punta di lancia, si salda col malcontento delle tribù sunnite della zona, ostili al governo centrale di Al Maliki, e minaccia di durare parecchio. Essa è la punizione che i Sauditi intendono infliggere al premier e al suo Paese, per l’atteggiamento nel conflitto siriano, vicino a Bashar al Assad, contro cui conducono ormai da anni una feroce guerra per procura. Destabilizzando l’Iraq, essi intendono ottenere due risultati: ostacolare l’affermarsi di un asse sciita che dall’Iran arrivi fino al Libano attraverso la Siria, ora in fiamme, ed impedire che la produzione di greggio irachena possa riprendere appieno, riversandosi su un mercato saturo ed abbassando la quotazione internazionale.
Al Maliki è già volato negli Usa per ottenere gli armamenti che gli servono, e sono stati siglati accordi assai importanti, come quello per la fornitura di 24 elicotteri d’attacco Ah-64 Apache, oltre a molto altro materiale già fornito o in corso di fornitura, come tank M1 Abrams, caccia F-16, droni e missili Hellfire. Inoltre s’è già rivolto alla Russia, per assicurarsi un altro canale d’approvvigionamento e non doversi legare mani e piedi a Washington. Il fatto è che quegli aiuti, secondo il Premier, tardano, così ecco che ufficialmente, per avere in fretta ciò che gli serve (e per dimostrare una certa capacità d’indipendenza) l’Iraq ha sottoscritto l’accordo con l’Iran, piccolo ma significativo.
Secondo la Reuters, la fornitura s’articola in otto contratti: sei con la Defence Industries Organization e riguarda armi leggere (fucili d’assalto e mitragliatrici), munizioni, mortai con munizionamento guidato e proiettili per artiglieria. Gli altri due contratti, siglati con l’Iran Electronic Industries, riguardano visori notturni, sistemi di comunicazione ed apparati per guida di munizionamento “intelligente”. Cosa rimarchevole, alla luce delle esperienze siriane, nelle forniture sono comprese maschere antigas ed apparati di protezione contro agenti chimici, che si teme gli insorti possano impiegare.
Ovviamente gli Usa hanno subito protestato: funzionari di Washington si sono affrettati a dichiarare che se la notizia fosse confermata ufficialmente, sarebbe un ostacolo al proseguimento delle trattative del 5+1 sul nucleare, in quanto violazione di una risoluzione Onu.
In realtà la mossa di Al Maliki ha anche un’altra ragione, tutta interna: quest’anno scade il suo secondo mandato presidenziale, e già la scorsa volta fu rieletto solo grazie all’appoggio di Teheran, che ha una grande influenza sulla popolazione sciita (in netta maggioranza nella Nazione); ed i partiti che la rappresentano, han già fatto cadere il governo, dimostrando tutto il suo isolamento e che senza di loro è spacciato. Così, per propiziare il sostegno alla sua terza elezione (e per aprire un canale voluto dalla maggioranza sciita), ha giocato la carta dell’Iran (che peraltro già rifornisce abbondantemente l’Iraq di energia elettrica e gas). Il ritardo nelle forniture (che sono un mare rispetto alle gocce di quei contratti) è solo una scusa accampata, come riferisce alla Reuters un politico iracheno, mantenendosi anonimo.
Sia come sia, è un fatto che la politica spesso ambigua di Al Maliki, ha ottenuto il capolavoro di scontentare i sunniti iracheni, che con il consolidarsi dell’asse con l’Iran vedono divenire definitiva la loro posizione subalterna, proprio loro che fino alla caduta di Saddam dettavano legge; e alienarsi l’appoggio degli sciiti, stufi d’un personaggio che ora richiamano bruscamente all’ordine.
E gli Usa, pur facendo la faccia feroce al riavvicinamento fra i due Paesi, mostrandosi allarmati per l’uso che potrà esser fatto delle armi che forniscono, in realtà vogliono solo levarsi il prima possibile da quel pantano, che ora rappresenta solo un investimento in perdita.
Maliki da parte sua taglia corto, dichiarando che l’economia è finalmente in crescita, è l’Iraq è in grado di pagare tutti i sistemi d’arma di cui ha bisogno, facendo mostra di decisionismo per il fronte interno.
Sul campo la situazione è tutt’altro che stabilizzata, e tutta l’area sarà pervasa da convulsioni fino a che non si concluderà la crisi in Siria, dove tutti i Paesi della zona combattono su fronti opposti, quanto meno per procura. E pur fra mille diffidenze, è assai improbabile che gli Usa facciano saltare il banco proprio ora che si son decisi ad una sia pur timida apertura con l’Iran, malgrado gli strilli di sauditi e israeliani. Nel frattempo, sarà purtroppo il sangue a scorrere insieme ai giorni.