Alcuni echi dal Sessantotto… E’ ciò che resta nel dibattito attuale?
Iniziamo quest’articolo citando le parole di Pier Paolo Pasolini, per dare furbamente maggiore forza a quello che sosterremo, certi che in questo modo lo stesso venga letto oltre le prime sette righe, dato che è molto difficile per una persona, dal parere non esattamente autorevole, fare delle affermazioni forse un po’ lontane dal senso comune attuale.
Quello che Pasolini disse nell’intervista che citeremo è stato facilmente oggetto di strumentalizzazione a destra, la quale tuttavia non ha mai potuto, né mai potrà, contraddire la natura di quest’intellettuale quale indipendente uomo di Sinistra.
“Distruggendo la propria cultura, la massa informe dei contestatori distrugge la cultura della società borghese ed è quello che la società borghese oggi vuole. Di qui a fare della propria ignoranza una specie di ideologia, il passo è breve: la mitizzazione del «pragma» (organizzativo) che ne deriva, è poi l’atteggiamento richiesto dal neocapitalismo: un buon tecnico deve ignorare il passato; deve amare soltanto il «fare» (Pasolini, “Il sogno del Centauro”, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma).
Pasolini ha avuto delle intuizioni brillanti, proiettate al futuro, che vanno oltre la contestualizzazione in un preciso momento storico del Sessantotto, fenomeno di per sé considerabile come positivo:
– che borghesia (soggetto sociale, con un proprio sistema di valori) e capitalismo (modo di produzione impersonale) sono concetti scindibili. Due esempi: Silvio Berlusconi rappresenta un simbolo del capitalismo non borghese (privo ad esempio della stessa cultura greca del limite della borghesia); Karl Marx, con la sua “coscienza infelice borghese”, era promotore di una società di liberi ed uguali, era un borghese non capitalista;
– che il capitalismo, per diventare perfettamente realizzato, si libera della borghesia e del suo sistema di valori, perché una parte di essa è sempre potenzialmente critica e sovversiva, e che il Sessantotto è stato in qualche modo funzionale a questa tendenza;
– il “Vietato vietare”- tipico motto del Sessantotto – (e in generale, i principi che stavano alla base del movimento), in assenza di cultura (quindi se presi in mano da una massa amorfa di ignoranti), è potenzialmente distruttivo e apre le porte, con tanto di occhiolino, a forme di ultra-capitalismo post-borghese;
– che la “cultura del fare” diventa ideologia. La tecnica, lo specialismo, apparentemente asettici, possono diventare ideologia, se non affiancati da una solida cultura valoriale e critica (con ciò comunque non intendeva che questa è da trovare nel mondo borghese tradizionalmente inteso);
Pasolini ha anticipato certe nuove interpretazioni filosofiche di alcuni sostenitori del discorso di Marx, da cui abbiamo tratto umilmente spunto, ma con sostanziali precisazioni.
Partiamo da una distinzione: il Sessantotto in sé e il Sessantotto nell’assimilazione storica, ovvero “Il mito del Sessantotto”.
Il Sessantotto in sé è stato soprattutto una battaglia per l’emancipazione dell’uomo attraverso i diritti civili. Il Sessantotto simbolicamente nasce come uccisione della natura dispotica del “padre”, in un’ Europa di forte tradizione cattolica, con resistenti tendenze integraliste (religione=morale ma anche morale=religione, in un rapporto biunivoco) e con alle spalle diverse dittature, compiuta ad opera della sinistra di allora. Uso la locuzione “di allora” perché la sinistra in quel momento aveva in seno, più che in altre forze politiche, quella forza liberale capace di lottare contro la natura dispotica del potere costituito. Ciò era anche compatibile con l’allora dominante visione del marxismo, che intendeva Marx più come un sociologo e per la quale non esiste una vera essenza dell’uomo, considerato unicamente un prodotto della società e non della storia. Veniva negata la sua matrice idealista.
Il Sessantotto è stato anche un movimento che è coinciso con il riconoscimento di alcuni importanti diritti sociali, tra i quali il diritto allo studio, lo Statuto dei Lavoratori nel 1970. Qualcuno sostenne che questi traguardi sarebbero stati raggiunti al di là delle manifestazioni studentesche; nel senso che questi erano corrispondenti alla tradizione socialista e comunista integrata, già esistente; Erano intesi più come risultato delle lotte operaie, da distinguere nella sostanza rispetto a quelle studentesche. Ma al di là di ciò: nel mito del Sessantotto, per come arriva oggi, questa componente risulta abbastanza trascurata. Perché?
Il Sessantotto, nella sua assimilazione storica, ha subìto delle derive, ben anticipate da Pasolini. Tali derive sono riconducibili al fatto che alle battaglie radicali per l’affermazione delle libertà civili, delle libertà negative, non sono più state affiancate, dopo gli anni ‘70 e a maggior ragione dopo l’89, delle battaglie radicali per i diritti sociali; battaglie per le libertà positive, frutto di una critica continua al modo di produzione capitalistico, che nel frattempo cambiava volto e vanificava gli sforzi fatti fino ad allora. Alla lotta contro il potere costituito (pars destruens), non è seguita quella per il rafforzamento del potere costituente.
Ecco perché oggi non possiamo stupirci del fatto che il dibattito tra le maggiori forze politiche sia concentrato soprattutto sui diritti civili. Ecco perché sui temi importanti la sinistra non risulta sostanzialmente distante dalla destra.
Ecco perché raramente si può scorgere indignazione di fronte allo svuotamento di certi principi della Costituzione Italiana in merito ai rapporti economici e all’utilità sociale.
Ecco perché non si odono proteste significative contro il fatto che nei Trattati Comunitari gli unici limiti importanti al libero mercato siano quelli della tutela del consumatore (che non è un soggetto sociale, ma un individuo) e quelli della lotta ai monopoli e alle posizioni dominanti.
Ecco perché non c’è da stupirsi del fatto che la critica al movimento dei Forconi si sia limitata sostanzialmente a “Questi ignoranti non possono ledere la mia libertà di andare a lavorare!”.
Ci sono chiaramente delle eccezioni, che non dovranno però più rimanere eccezioni.
Possiamo azzardare che la vera rinascita culturale della sinistra debba partire proprio dalle intuizioni dell’immenso Pasolini?
Concludo con una provocazione che parte da un personaggio del tutto estraneo al discorso.
Non porsi il problema se il Superuomo sia stadio irraggiungibile o meno e al contempo guardare ugualmente con favore alla spinta alla trasfigurazione è da folli. E conduce al nulla.
(e Nietzsche non era un folle, perché ci credeva!)