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Svezia, va in fiamme il modello multiculturale

Per il sesto giorno consecutivo, i fuochi delle periferie riscaldano la gelida Svezia. E illuminano al contempo le gesta di centinaia di giovani immigrati che provocano scontri e violenze. Mentre le forze dell’ordine, ormai quasi impotenti rispetto a tale putiferio, chiedono altri rinforzi, il governo moderato di Fredrik Reinfeldt brancola nel buio e prova goffamente a minimizzare la portata degli eventi.

Tutto è iniziato lo scorso 13 maggio, dopo l’uccisione di un uomo armato di coltello da parte della polizia. L’episodio è valso come un detonatore di reazioni forti, con incendi, saccheggi, atti di sciacallaggio. I primi a riversarsi in strada sono stati gli abitanti del quartiere popolare di Husby, distretto settentrionale di Stoccolma, 11mila abitanti di cui l’80% immigrati, provenienti prevalentemente da Turchia e Somalia, ma anche da Siria, Libano e Iraq. Nel corso dei giorni, tuttavia, i disordini si sono estesi anche in altre borgate, coinvolgendone finora almeno 15, come riportano alcuni media locali. Venerdì notte le violenze hanno interessato anche le periferie della città di Orebro, 160 chilometri a ovest della capitale svedese.

Il conto dei danni causati fino ad oggi è molto salato, soprattutto per un Paese come la Svezia, per nulla avvezzo a fronteggiare episodi di tale risma. Si parla di almeno otto persone arrestate – tutte molto giovani, dai 15 ai 19 anni – e del danneggiamento di più di cento autovetture, svariati negozi, due scuole, una stazione di polizia e un centro culturale. Il timore degli svedesi è che le notti di passione proseguano, che le fiamme delle periferie divampino ulteriormente cacciando il mite Paese scandinavo in un duraturo stato di assedio.

Lo scenario svedese di questi giorni ricorda le immagini del 2010. Quella volta teatro degli scontri furono le periferie francesi – le cosiddette banlieues – infuocate dalla rabbia di giovani nati e cresciuti all’interno di quegli enormi formicai di cemento che le caratterizzano. Anche allora, come sta accadendo in queste ore, ovunque venivano intervistati sociologi, esperti di immigrazione e profeti di buonismo i quali, all’unisono, denunciavano l’esclusione sociale ricondotta al razzismo latente quale origine del malessere sfociato in scontri.

Eppure, sia la Francia che la Svezia – quest’ultima in particolare – sono universalmente riconosciute come nazioni modello di integrazione razziale, laboratori del tanto decantato multiculturalismo. La Svezia – Paese in cui le diseguaglianze sociali si attestano su livelli minimi – ha sempre fatto vanto del welfare garantito a tutti. Il che consiste in assistenza salariale ai disoccupati, adeguati servizi sanitari, istruzione pubblica accessibile e di buon livello. Se si considera, poi, la rigida legislazione svedese nei confronti di atteggiamenti giudicati razzisti o xenofobi, il quadro della Svezia come Paese non accogliente verso l’immigrato risulta oltremodo estraneo alla realtà dei fatti.

Pertanto, le analisi moralistiche di questo tipo appaiono obsolete, inadeguate e finanche strumentali. Se ne stanno accorgendo gli stessi svedesi autoctoni, evidentemente esasperati dai grandi flussi migratori che confluiscono nel loro Paese e stanchi di dover indossare i panni degli algidi moderati. «È una situazione esplosiva, sulla quale diamo l’allarme da anni, perché le nuove politiche liberali di questo Paese portano al disagio sociale», dichiara ad Euronews Arne Johannson, amministratore locale.

Ma in tanti si uniscono alle considerazioni di Johannson. In tanti contestano ai governi svedesi succedutisi negli ultimi anni la degenerazione di quelle politiche permissiviste che in verità da sempre contraddistinguono la Svezia. Marta Paterniti, una nostra connazionale ricercatrice del “Karolinska Institut” di Stoccolma, rifugge le ragioni razziali dietro questi scontri. Ciò che invece ella reputa una causa di questo malessere sono alcune riforme attuate, come quella della scuola: «Negli ultimi anni – afferma a Radio Vaticana(la Svezia) ha visto mancare molto la disciplina, c’è molta poca disciplina. C’è l’attitudine, da una parte, a rispettare le idee del bambino e a volte è come se i maestri diventassero passivi o addirittura vittime dei voleri dei bambini. Secondo me, questa cosa sta scappando di mano e messa in un contesto di segregazione crea dei problemi. Quando dalla scuola non arrivano modelli educativi forti, le famiglie di immigrati, che hanno già tutti i disagi del caso, vivono ancora di più questo disagio dei figli».

Altro che razzismo e xenofobia, dunque. Le origini delle violenze vanno ricercate proprio nell’eccessivo permissivismo che pervade la politica e la cultura svedesi. Permissivismo che come un filo rosso attraversa le scelte dei vari dicasteri del governo di Stoccolma, dall’Istruzione all’Immigrazione. Proprio il ministro di quest’ultimo, Tobias Billstroem, di recente ha pronunciato un chiaro mea culpa rispetto all’apertura disinvolta delle frontiere. Ha infatti dichiarato che «la Svezia ha bisogno di rafforzare le leggi per i richiedenti asilo e altri potenziali immigrati, al fine di ridurre il numero di persone che arrivano nel Paese», poiché, ha rincarato, «tale situazione non è sostenibile». Se anche i tolleranti svedesi – svegliati dal fuoco delle periferie in fiamme – se ne sono accorti, significa proprio che il modello multiculturale necessita di un radicale ripensamento.

di Federico Cenci

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