Convivenza Stato-Mafia svelata dal maresciallo Masi
Convivenza Stato-Mafia – Saverio Masi è un maresciallo capo dei Carabinieri, uno dei più attivi dell’Arma in Sicilia, tanto da aver costituito in passato una propria squadra addetta alle catture dei più importanti boss di Cosa Nostra.
E’ quindi una memoria “storica” dell’antimafia siciliana, una delle fonti più attendibili, un personaggio sulla cui rispettabilità in molti sono pronti a mettere le mani sul fuoco; nei giorni scorsi, il maresciallo Masi ha deciso di non tenere solo per sé un grande fardello che costituisce uno dei buchi neri delle forze dell’ordine in Sicilia, ma di vuotare il sacco in merito ad alcune vicende inerenti le catture dei due uomini più potenti della mafia siciliana del dopo Riina, ossia Bennardo Provenzano e Matteo Messina Denaro.
Pariamo un attimo dalla frase, rimasta per la verità un pò nel dimenticatoio, che lo stesso Provenzano denunciò al momento della sua cattura, in quello storico 11 aprile 2006: “Voi non sapete cosa avete fatto” disse ai poliziotti che perquisivano il suo casolare di Corleone.
La faccia sbigottita ed una frase detta in maniera decisa, dimostrano che l’ex primula rossa, latitante da 43 anni, non si aspettava la cattura, sicuro forse di protezioni ben assortite non solo nella politica ma anche, forse, nelle forze dell’ordine; quasi una sorta di patto, nascosto a quei poliziotti che hanno effettuato il blitz decisivo.
Ed in effetti Provenzano, tornando al discorso del maresciallo Masi, aveva ragione a sentirsi ben protetto; per almeno due volte infatti, la squadra capitanata dallo stesso maresciallo, è stata bloccata nei primi anni 2000, quando oramai era ad un passo dall’arresto dell’ultimo dei corleonesi.
“Noi non abbiamo nessuna intenzione di prendere Provenzano! Non hai capito niente allora? Lo vuoi capire o no che ti devi fermare? Hai finito di fare il finto c***? Dicci cosa vuoi che te lo diamo. Ti serve il posto di lavoro per tua sorella? Te lo diamo in tempi rapidi!”.
E’ una delle frasi rivolte a Masi e riferite dallo stesso, quando con la propria squadra aveva individuato un casolare nelle campagne di Ciminna, in provincia di Palermo, nel quale con molta probabilità era presente Provenzano.
Stesse frasi e stesse situazioni per Matteo Messina Denaro; Masi è stato molto vicino per ben due volte alla cattura del boss di Castelvetrano, una volta individuando con esattezza il suo covo, un’altra volta addirittura incrociandolo a bordo di un’auto nel centro di una città siciliana.
In entrambi i casi, il maresciallo capo aveva chiesto rinforzi e uomini per procedere alla cattura dell’attuale numero uno di Cosa Nostra, ma un incredibile silenzio è calato dai vertici dell’Arma e dunque Messina Denaro ha potuto continuare nella sua lunga latitanza.
Cosa vuol dire tutto ciò? Ricordando come le parole di Masi siano attendibili e come sono molto vicine ad un altro carabiniere come Michele Riccio, che anni fa denunciò simili pressioni per ostacolare la cattura di Provenzano, questo dimostra come molti apparati dello Stato vivano quasi in simbiosi con la mafia, sfruttando quella strategia del silenzio che va avanti dal 1993, nell’anno in cui al rumore delle bombe, si preferì la calma della trattativa, così come ampiamente dimostrato dai diversi processi ancora in corso a Palermo.
Ma non solo; le recenti catture, guarda caso, dei grandi boss mafiosi, spacciati dai vari governi come grandi successi nella guerra a cosa nostra, hanno in realtà avvantaggiato una sola persona, ossia quel Matteo Messina Denaro, la cui cattura è stata ostacolata più volte allo stesso Masi.
Da Provenzano ai Lo Piccolo, da Raccuglia a Giuseppe Falsone, sono tanti i boss che potevano ostacolare la scalata della primula rossa di Castelvetrano catturati nel giro di pochi mesi; infatti, da quell’11 aprile 2006 ad oggi, sono state fatte più operazioni e blitz che in tutti i sessant’anni dell’intera Repubblica.
Un caso emblematico può essere rappresentato dalla provincia di Agrigento: qui infatti, per anni hanno primeggiato due figure di spicco di Cosa Nostra, come il sopra citato Giuseppe Falsone e Gerlandino Messina, latitanti da almeno un decennio; ma clamorosamente, con una rapidità mai vista prima da queste parti, sono stati acciuffati tutti e due nel giro di pochi mesi, tra il giugno e l’ottobre 2010, aprendo di fatto la strada al dominio di Messina Denaro nei mandamenti agrigentini.
Sempre nella provincia di Agrigento, è stato catturato nei mesi scorsi un certo Leo Sutera, molto vicino a Messina Denaro e che molti inquirenti seguivano per tentare di arrivare al ricercato numero uno; la cattura di Sutera, ha generato una sollevazione in molti ambienti della procura di Palermo, perché di fatto ha bruciato le indagini sulla cattura di Messina Denaro.
Insomma, lo scenario che sembra profilarsi, è che attualmente ci sia una convivenza, come detto ad inizio articolo, tra parti dello Stato e parti della mafia siciliana vicine al boss trapanese; una sorta di scambio di reciproci favori, tra coperture, affari e quanto di marcio possa ruotare attorno agli interessi malavitosi.
Ricordiamo inoltre, come Messina Denaro abbia un ruolo attivo nelle stragi del 1992 e 1993, le cui inchieste dimostrano come esse siano da preludio alla trattativa stato–mafia e dunque, si potrebbe ipotizzare anche una protezione del boss trapanese nell’ottica di nascondere le verità più scottanti sui processi in corso e che riguardano molti politici di spicco degli anni ’90.
Se le dichiarazioni di Masi sono veritiere, dimostrano come le catture dei boss siano “ad orologeria”, spuntano cioè quando il capo mafia di turno non è più indispensabile, se non addirittura di ostacolo, alla simbiosi tra parti dello stato e cosa nostra.
Che il maresciallo Masi comunque dica la verità, potrebbe essere dimostrato dal fatto che sia finito paradossalmente lui sotto processo, sorte che tocca a chiunque in Italia accenni a rivelare i fatti più nascosti e grigi; Masi infatti, è indagato per falso ideologico per aver chiesto l’annullamento di una sanzione del codice della strada subita con un’auto privata durante un servizio di polizia giudiziaria. «Usavamo sempre macchine di amici e parenti per fare i pedinamenti – aveva spiegato Masi nell’ambito del processo Mori – in quanto i fiancheggiatori conoscevano ed annotavano le targhe delle auto di servizio che usavamo. Così, ad esempio, se dovevamo entrare a Bagheria, ricorrevamo ad auto intestate a nostri conoscenti del posto, in modo da non destare alcun sospetto, e di multe ne abbiamo ricevute diverse. Era una procedura che i miei superiori conoscevano».
Saranno interessanti dunque le evoluzioni sia dei processi in corso a Palermo che dei futuri dettagli che potrebbero emergere sulle coperture ai più importanti boss di Cosa Nostra.
di Mauro Indelicato