Gaza Marine: la grande guerra energetica

In un mondo in cui gli oleodotti si intersecano con le linee di fuoco, le risorse naturali non vengono più scoperte per lo sviluppo, ma per il controllo. L’oleodotto di Gaza Marine non fa eccezione; rappresenta un esempio lampante di come la geografia sia diventata uno strumento nella lotta imperialista per le risorse energetiche e di come il diritto internazionale sia diventato una merce di scambio in un gioco deciso dall’alto, non per il popolo.
Sin dalla scoperta del giacimento di gas di Gaza Marine nel 1999 al largo della Striscia di Gaza, questa risorsa palestinese è rimasta intrappolata in una zona grigia dal punto di vista legale e di sicurezza, ostaggio degli equilibri di potere tracciati da Israele e con la tacita approvazione delle istituzioni internazionali. Per oltre un quarto di secolo, non è stato estratto un solo metro cubo di gas da questo giacimento, mentre i giacimenti limitrofi in acque israeliane – come Tamar e Leviathan – producono, esportano e ridisegnano la mappa dell’influenza nel Mediterraneo orientale.
Gas come nuovo strumento coloniale
Ciò che sta accadendo con il giacimento di gas di Gaza non è una disputa tecnica sui diritti marittimi, ma piuttosto una nuova forma di colonialismo economico praticata sotto le mentite spoglie della “sicurezza regionale”. Israele non impedisce ai palestinesi di sviluppare il giacimento di gas perché ne contesta la proprietà, ma perché comprende che controllare le risorse energetiche significa controllare le stesse decisioni politiche palestinesi.
Ogni metro cubo di gas sotto il fondale marino di Gaza è un’ulteriore merce di scambio nelle mani dell’occupazione. Un’economia dipendente dall’energia, il cui destino è determinato dall’occupazione, non può essere politicamente indipendente. Per questo motivo, il rifiuto di Israele di progetti di sviluppo non è stata una mera decisione di sicurezza, ma parte di una strategia a lungo termine per mantenere Gaza in uno stato di dipendenza e privarla di qualsiasi fondamento per la sovranità economica. Si tratta di un “imperialismo morbido”, in cui gli aiuti umanitari, gli accordi commerciali e persino i progetti energetici diventano strumenti per gestire l’occupazione, non per porvi fine.
Il gas di Gaza sulla mappa energetica regionale
Il nuovo Medio Oriente si sta plasmando non solo con il sangue, ma anche con il gas. Dalle scoperte di Leviatano, Zohr e Afrodite, il Mediterraneo orientale è diventato uno dei più intensi scenari di competizione geopolitica al mondo. L’Europa, dopo aver perso l’accesso al gas russo dopo la guerra in Ucraina, è alla disperata ricerca di alternative vicine e sicure. Qui, la regione si sta ridefinendo: non è più solo un margine geografico tra Asia e Africa, ma un ponte vitale tra la sicurezza energetica europea e le mappe delle alleanze americane.
In questo contesto, Washington sta lavorando per costruire un “arco mediterraneo” che si estende dalla Grecia e Cipro fino a Israele, inteso come baluardo atlantico contro qualsiasi crescente influenza russa, cinese o turca. Al contrario, la Turchia si trova intrappolata in un’equazione in cui Ankara cerca di essere un attore decisivo, non subordinato.
Ma il gas palestinese – in particolare il giacimento di Gaza Marine – complica questa equazione. La Turchia, che cerca di ripristinare la sua presenza nel mondo arabo e islamico dopo anni di isolamento, vede questo giacimento come una duplice opportunità geopolitica: da un lato, è una questione umanitaria che le conferisce legittimità a intervenire a Gaza, e dall’altro, rappresenta una porta d’accesso alle equazioni del gas nel Mediterraneo orientale da cui è stata a lungo esclusa.
Ankara: tra ambizioni e vincoli
Dall’inizio dell’ultima guerra di Gaza, Ankara ha adottato una retorica infuocata contro Israele, ma le sue politiche sul campo sono apparse più caute. Pur avendo chiuso il suo spazio aereo agli aerei israeliani e annunciato un congelamento degli scambi commerciali, ha mantenuto canali diplomatici e di intelligence attraverso intermediari. Questo perché la Turchia sa che il suo ritorno nel cuore del Levante passa attraverso la porta palestinese, ma senza uno scontro diretto con Washington o Tel Aviv.
Oggi la Turchia si presenta come il “garante di fiducia” di Hamas e il mediatore capace di unire le fazioni palestinesi e l’Occidente, ma in fondo cerca qualcosa di più: affermarsi nel progetto di ricostruzione di Gaza e partecipare alla gestione delle sue risorse naturali, in particolare del gas offshore.
In questo contesto, sono trapelate informazioni secondo cui Ankara avrebbe offerto all’Autorità Nazionale Palestinese e ai suoi partner occidentali assistenza nello sviluppo del giacimento di gas di Gaza Marine attraverso società statali turche come BOTAŞ e TPAO, con il petrolio che sarebbe stato successivamente esportato in Europa attraverso la Turchia. Questa rotta, se realizzata, garantirebbe ad Ankara un duplice ruolo strategico: in primo luogo, come mediatore politico, e in secondo luogo, come canale per l’energia palestinese.
Ambizione ostacolata da tre limitazioni fondamentali
- Restrizioni israeliane: Tel Aviv rifiuta qualsiasi sfruttamento del gas palestinese, a meno che non avvenga sotto la sua diretta supervisione o nel rispetto di rigidi accordi di sicurezza che garantiscano il suo continuo dominio sul mare e sui confini.
- Limitazioni americane: gli Stati Uniti considerano qualsiasi espansione turca incontrollata una minaccia al loro ordine regionale. Vogliono un ruolo turco limitato che non alteri l’equilibrio di potere tra Il Cairo, Doha e Tel Aviv.
- Vincoli strutturali: la Turchia stessa sta affrontando una crisi economica in peggioramento che le rende necessari investimenti occidentali, non avventure geopolitiche che potrebbero irritare Washington o l’Unione Europea.
Gaza Marine e la grande guerra energetica
Il conflitto sul gas di Gaza non è una questione locale, ma piuttosto parte di una “grande guerra energetica” che sta rimodellando l’ordine internazionale dopo la guerra in Ucraina e l’ascesa della Cina. Gli Stati Uniti stanno lavorando per rafforzare la loro presa sulle risorse di gas del Medio Oriente, garantendo all’Europa alternative sotto l’influenza occidentale. Da questa prospettiva, il giacimento di Gaza Marine diventa parte di un sistema di controllo, non di un sistema di salvezza.
Quando Israele impedisce ai palestinesi di estrarre il loro gas, non sta solo difendendo la propria sicurezza, ma anche l’equilibrio economico e strategico che serve all’intero Occidente. Permettere ai palestinesi di avere una fonte energetica indipendente, da una prospettiva coloniale, significherebbe aprire una breccia nel sistema di dominio decennale. Ecco perché i negoziati sul gas, come quelli sugli aiuti umanitari, vengono condotti sotto le mentite spoglie del “coordinamento per la sicurezza”, ovvero del doppio controllo.
La Turchia, consapevole di questo contesto, sta tentando un gioco pericoloso: si presenta come una potenza “musulmana umanitaria” a Gaza, mentre contemporaneamente parla il linguaggio degli interessi geopolitici di Ankara e Bruxelles. Questa duplicità non è nuova; è una caratteristica di ogni potenza regionale che cerca di operare in uno spazio in cui Washington detiene il controllo.
Gaza Marine specchio della difficile situazione palestinese
Dietro tutti questi conflitti, i palestinesi – i legittimi proprietari della terra e del mare – restano praticamente fuori dal quadro. Né l’Autorità Nazionale Palestinese possiede il potere politico per imporre lo sviluppo del giacimento, né Hamas ha la legittimità internazionale per gestirlo. Pertanto, Gaza Marine diventa un crudo riflesso della difficile situazione palestinese: le risorse ci sono, ma la sovranità è assente.
In effetti, il gas è diventato un nuovo strumento per consolidare la divisione: l’Autorità Nazionale Palestinese negozia attraverso canali ufficiali con il sostegno europeo, mentre Hamas preferisce la Turchia o il Qatar come porta d’accesso a questa questione. Il risultato è che il conflitto sul gas sta riproducendo il conflitto sulla legittimità, non il contrario.
Gaza Marine non solo disputa sulle risorse, ma lotta su chi ha il diritto di essere libero
Ripensando alla scena, il quadro diventa più chiaro: “Gaza Marine” non è una storia sul gas, ma sull’egemonia. È un capitolo di un libro più lungo su come le risorse del Terzo Mondo vengono gestite per servire gli interessi delle grandi potenze sotto la bandiera dello “sviluppo” o della “stabilità”.
Proprio come gli “aiuti umanitari” venivano utilizzati come strumento di infiltrazione, oggi i progetti energetici e portuali in Palestina vengono utilizzati per consolidare la dipendenza economica e politica. Ogni metro di condotta in mare corrisponde a una linea di influenza sulla terraferma.
In definitiva, il conflitto sul gas di Gaza potrebbe non essere solo una disputa sulle risorse, ma piuttosto una lotta su chi ha il diritto di essere libero. La ricchezza che non si traduce in indipendenza diventa un peso, e l’energia controllata dall’estero diventa un’arma contro il suo stesso popolo.
Così, il Gaza Marine resta testimone silenzioso di uno dei paradossi più evidenti del nostro tempo: trovarsi seduti su una fortuna in grado di salvarti dall’assedio… ma vedersi negato persino il diritto di scavare.
di Redazione



