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Iraq, il prezzo della libertà

Per anni, Washington ha inviato segnali contrastanti sulla sua presenza in Iraq, oscillando tra la prontezza a ritirare le truppe in un momento e una ferma resistenza in quello successivo. Uno dei momenti più importanti si è verificato nel 2020, subito dopo l’assassinio da parte degli Stati Uniti del generale iraniano della Forza Quds, Qassem Soleimani e del vice capo delle Forze di mobilitazione popolare irachene, Abu Mahdi al-Muhandis. 

All’epoca, un messaggio trapelato, descritto dal generale statunitense Mark Milley come “mal formulato e che suggeriva un ritiro”, fu liquidato come una bozza non firmata, intesa a valutare le reazioni irachene. Ma Baghdad insistette che il messaggio era accurato.

Facciamo un salto all’anno scorso: il processo per stabilire una tempistica per il ritiro degli Stati Uniti dall’Iraq è stato finalmente avviato, anche se, ancora una volta, senza garanzie concrete. Indipendentemente dalla posizione dell’Iraq o dalle sue risoluzioni parlamentari, molte delle quali rimangono non vincolanti, anni di negoziati infruttuosi sotto i governi dei primi ministri iracheni Mustafa al-Kadhimi e Mohammed Shia al-Sudani hanno ora spostato il dibattito verso le relazioni bilaterali con i singoli partner della coalizione nella lotta contro l’Isis

La costosa coalizione

La coalizione anti-Isis, un tempo considerata una necessità militare, è diventata un peso finanziario e logistico per tutte le parti. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, la spesa militare totale della coalizione internazionale ha superato i 100 miliardi di dollari tra il 2014 e il 2020. Solo gli Usa, come forza principale della coalizione, hanno speso una cifra stimata tra i 30 e i 35 miliardi di dollari durante quel periodo, coprendo attacchi aerei, logistica e armamento delle forze locali.

Anche gli altri membri della coalizione hanno dovuto sostenere oneri finanziari: la Francia ha stanziato circa 1,1 miliardi di euro all’anno per le operazioni in Iraq e Siria dal 2015 al 2018, mentre il Regno Unito ha speso circa 2,5 miliardi di sterline tra il 2014 e il 2018. 

Considerati questi dati – e la rielezione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, i cui punti cardine della politica estera includono la fine delle “guerre per sempre” e la richiesta che gli alleati si assumano una maggiore responsabilità finanziaria – non sorprende che Washington stia ora ridimensionando gli impegni della sua coalizione. 

Il governo iracheno si è mosso di conseguenza, adattandosi ai rapidi sviluppi politici della regione. La coalizione sta trasferendo silenziosamente il suo peso militare nelle aree controllate dalle Forze democratiche siriane guidate dai curdi.

L’eredità dell’alleanza e la sua frammentazione 

Durante la sua visita a Londra il mese scorso, il Primo Ministro iracheno Sudani ha accennato a una crescente presenza britannica in Iraq a spese della presenza statunitense. Ha dichiarato all’Afp che “è stata firmata una dichiarazione congiunta sulla cooperazione in materia di sicurezza tra Iraq e Regno Unito”, un passo fondamentale nella più ampia transizione dalla coalizione internazionale. 

Secondo Salam Adel, responsabile del Centro informazioni per l’analisi, che ha accompagnato Sudani nella visita di alto livello, il Regno Unito ha già firmato accordi cruciali con l’Iraq, tra cui lo sviluppo della base militare di Qayyarah a Mosul e il ritorno delle compagnie petrolifere britanniche a Kirkuk. 

Iraq stipula accordi bilaterali con principali membri della coalizione

Queste mosse segnalano che l’Iraq non sta semplicemente sostituendo gli Stati Uniti con la Gran Bretagna, ma sta invece stipulando accordi bilaterali su misura con i principali membri della coalizione, ovvero Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Corea del Sud, per smantellare sistematicamente la coalizione e ridefinire le sue partnership di sicurezza. 

Fonti dell’ufficio del Primo Ministro iracheno riferiscono che gli accordi del Regno Unito con l’Iraq includono un progetto di ristrutturazione da 500 milioni di sterline (640 milioni di dollari) per la base aerea di Qayyarah, parte di un accordo più ampio da 12,3 miliardi di sterline (15 miliardi di dollari).  

Nel frattempo, anche la Francia si è assicurata contratti sostanziali. A luglio 2022, l’Iraq ha firmato un accordo con la società francese Thales per radar avanzati a lungo raggio, il Ground Master 403 e il GM 200, che coprono lo spazio aereo iracheno. Inoltre, il Ministero degli Interni iracheno ha firmato un contratto nel 2014 con Thales per sistemi di elaborazione e abbinamento biometrici. 

Ulteriori accordi con Airbus hanno visto l’Iraq acquisire 14 elicotteri, tra cui 12 H225M Caracal. Il fulcro della cooperazione franco-irachena, tuttavia, rimane l’investimento di 27 miliardi di dollari di TotalEnergies nei settori petrolifero ed energetico dell’Iraq.

Approccio intermedio Usa

Washington, riconoscendo la crescente autonomia dell’Iraq, ha adottato un approccio intermedio. Invece di fornire direttamente a Baghdad difese aeree avanzate, gli Stati Uniti hanno incoraggiato l’Iraq a stipulare contratti con la Corea del Sud, uno dei suoi più stretti alleati. 

Da allora, Baghdad ha acquisito il sistema Cheongung-II (noto come “Korean Patriot”) in un affare da 2,78 miliardi di dollari. Questo sistema fonde tecnologie militari occidentali e orientali ed è stato sviluppato congiuntamente con l’esperienza russa. 

Oltre a ciò, l’Iraq ha anche firmato un contratto da 93,7 milioni di dollari con la Korea Aerospace Industries per l’acquisto di elicotteri KUH-1, che si aggiunge a un precedente accordo da 1,1 miliardi di dollari per 24 jet da combattimento KT-50 Golden Eagle.

Mentre i recenti acquisti di sistemi radar avanzati (TPS-77) e di oltre 40 elicotteri Bell sotto l’amministrazione dell’ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden sono degni di nota, tutti gli occhi sono ora puntati sul potenziale accordo con Trump. A differenza dell’Arabia Saudita, che può versare centinaia di miliardi in un accordo, l’Iraq non ha una leva finanziaria simile. 

Tuttavia, fonti vicine al blocco parlamentare del Coordination Framework iracheno suggeriscono che Baghdad cercherà strade alternative per assicurarsi la cooperazione degli Stati Uniti nel finalizzare il ritiro della coalizione.

Segnali di partenza dall’Iraq

Mentre la Siria post-presidente Bashar al-Assad affronta una continua instabilità settaria e la Turchia espande le operazioni contro le Sdf, le forze statunitensi in Iraq hanno avviato un importante sforzo di ridispiegamento. Le risorse militari vengono trasferite dalle basi irachene, come Ain al-Assad, a località chiave in Siria, tra cui Kharab al-Jir, Qasrak e Shaddadi nella provincia di Hasakah. 

Fonti vicine alla Resistenza Islamica in Iraq descrivono la portata di questi trasferimenti aerei e terrestri come “eccezionali”, indicando non solo un riposizionamento, ma uno spostamento operativo verso la protezione degli interessi strategici in Siria.

Gli osservatori ritengono che questo trasferimento serva a molteplici obiettivi: contrastare l’espansione della Turchia a spese delle Sdf, facilitare l’evacuazione del famigerato campo profughi di Al-Hol e potenzialmente trasferire i detenuti della prigione di Gweiran, molti dei quali sono operativi dell’Isis, in Iraq. Sebbene non confermati, questi resoconti sono in linea con gli obiettivi più ampi degli Stati Uniti nella regione.

La strategia dell’Iraq

In termini di impegni militari ed economici, l’Iraq si è già assicurato oltre 30 miliardi di dollari in accordi con la Francia, 20 miliardi di dollari con il Regno Unito e 5 miliardi di dollari con la Corea del Sud. L’imminente accordo dell’era Trump, che potrebbe ulteriormente rimodellare le prospettive geopolitiche dell’Iraq, rimane un’incognita. 

Alcuni analisti paragonano queste negoziazioni al fondamentale accordo sulle armi Al-Yamamah tra Arabia Saudita e Regno Unito negli anni ’80, in cui la cooperazione militare era legata alla protezione internazionale. Se le tensioni con Washington dovessero aumentare, la capacità dell’Iraq di radunare alleati europei potrebbe rivelarsi decisiva nel contrastare la pressione americana di prendere le distanze dall’Iran.

In definitiva, la strategia dell’Iraq è chiara: sostituire il modello obsoleto della coalizione internazionale con una rete di partnership bilaterali dirette, garantendo la sicurezza e rivendicando la sovranità nazionale. L’unica domanda rimasta è: quale prezzo dovrà pagare Baghdad per l’uscita definitiva di Washington?

di Redazione

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