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Xinjiang, dagli uiguri e alla cooperazione Europa-Cina

Secondo uno studio pubblicato lo scorso maggio 2021 dall’Università britannica di Sheffield e, più precisamente, secondo il report “In Broad Daylight. Uyghur Forced Labour and Global Solar Supply Chain” dell’Helena Kennedy Centre, la Cina starebbe impiegando la minoranza etnica degli uiguri dello Xinjiang in aziende che producono componenti necessari (polisilicio) per la produzione di pannelli fotovoltaici costringendoli a svolgere lavoro forzato e sottopagato. Secondo questo report, nel 2020 il mercato di polisilicio nel mondo era composto per il 25% da quanto prodotto in vari stati internazionali, per il 30% da quanto prodotto dalla Cina e addirittura per il 45% da quanto prodotto dalla regione abitata dagli uiguri, cioè dallo Xinjiang, nel nord ovest della Cina. Le due autrici del rapporto, Laura T. Murphy e Nyrola Elimä, hanno invitato nel loro scritto a boicottare la, secondo il loro studio, illegale produzione cinese.

‘In Broad Daylight’ recita: “La Repubblica popolare cinese (RPC) ha collocato milioni di cittadini indigeni uiguri e kazaki della regione autonoma uigura dello Xinjiang (XUAR o regione uigura) in ciò che il governo chiama programmi per “lavoro in eccesso” (富余劳动力) e “trasferimento di manodopera” (劳动力转移). Un rapporto ufficiale del governo della RPC pubblicato nel novembre 2020 documenta il “collocamento” di 2,6 milioni di cittadini minorati in posti di lavoro nelle fattorie e nelle fabbriche all’interno della regione uigura e in tutto il Paese attraverso queste iniziative di “lavoro in eccesso” e di “trasferimento di lavoro” sponsorizzate dallo Stato.

Per la Cina nessuna violazione nello Xinjiang

Il governo afferma che questi programmi sono conformi alla legge della RPC e che i lavoratori sono impegnati volontariamente, in uno sforzo concertato sostenuto dal governo per alleviare la povertà”. Tuttavia, continua il report, pare ci siano fonti governative e aziendali pronte a provare che “i trasferimenti di lavoro sono dispiegati nella regione uigura in un ambiente di coercizione senza precedenti, sostenuto dalla costante minaccia di rieducazione e internamento. Molti lavoratori indigeni non sono in grado di rifiutare o abbandonare questi lavori, e quindi i programmi equivalgono al trasferimento forzato di popolazioni e alla schiavitù”. E afferma: “Abbiamo concluso che l’industria solare è particolarmente vulnerabile al lavoro forzato nella regione uigura perché:

  • Il 95% dei moduli solari si basa su un materiale primario: il polisilicio solare.
  • I produttori di silicio policristallino nella regione uigura rappresentano circa il 45% della fornitura mondiale di silicio policristallino di grado solare.
  • Tutti i produttori di polisilicio nella regione uigura hanno segnalato la loro partecipazione a programmi di trasferimento del lavoro e/o sono forniti da aziende di materie prime che lo hanno.
  • Nel 2020, la Cina ha prodotto un ulteriore 30% del polisilicio mondiale oltre a quello prodotto nella regione uigura, una percentuale significativa del quale potrebbe essere colpita dal lavoro forzato anche nella regione uigura.”

Accuse alla Cina

Insomma, senza andare oltre nelle citazioni di questo studio britannico, è chiara e forte l’accusa alla Cina. 

Le conseguenze non hanno ritardato a farsi sentire nel mercato del fotovoltaico mondiale. Inevitabilmente anche il mondo politico opposto alla Cina si è poi mosso con un parziale boicottaggio dei prodotti cinesi, sfruttando la situazione per farne un caso anche, appunto, politico. Era successo anche con il cotone, quando grosse aziende come Nike e H&M, avevano scelto di non comprare più materia prima in Cina ma avevano, in un secondo momento, dichiarato di non voler fare entrare la politica nel loro mercato. Se e quando si verificano queste situazioni, le ripercussioni sul mondo del lavoro, della cooperazione e dell’economia sono devastanti. 

Le prove dell’Onu

L’agenzia di stampa britannica Reuters ha affermato che l’Onu avrebbe prove credibili riguardo l’internamento di milioni di uiguri in campi segreti, ma c’è da considerare il fatto che il Comitato sull’eliminazione della discriminazione razziale o un suo singolo membro non possano parlare in nome dell’intera Onu. Così come anche l’Helena Kennedy Centre non può di certo proferire verità assolute. Ogni notizia è sempre e comunque da verificare e da mettere in dubbio, soprattutto se ne va della collaborazione tra Continenti per una strategia politica di un certo tipo.

Non è un trascurabile che nel luglio del 2019, 37 Paesi tra cui Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Sudan, Angola, Algeria, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Corea del Nord, Serbia, Russia, Venezuela, Filippine, Myanmar, Pakistan e Siria hanno firmato una lettera congiunta all’Unhcr elogiando la Cina per i risultati notevoli nello Xinjiang. Nel frattempo, il ‘Global Times’, tabloid statale cinese, ha in seguito confermato la firma della lettera di 50 paesi tra cui Iran, Iraq, Sri Lanka, Gibuti e Palestina.

Inoltre, nel novembre 2019, poco prima della pandemia da Covid-19, la missione delle Nazioni Unite ha pubblicato un elenco completo di 54 Paesi che sostenevano le politiche cinesi dello Xinjiang. Si parla molto dei ‘centri di rieducazione’ che la Cina sostiene di aver messo in piedi per limitare e correggere soggetti protagonisti di episodi terroristici. 

I media locali

A partire dal 2017, i media locali in genere si riferivano alle strutture come “centri di formazione contro l’estremismo” (去极端化培训班) e “centri di formazione per l’istruzione e la trasformazione” (教育转化培训中心). La maggior parte di queste strutture sono state convertite da scuole esistenti o altri edifici ufficiali, sebbene alcune siano state appositamente costruite per scopi di “rieducazione”. Questi centri sono stati presi di mira perché, secondo chi accusa la Cina, costituirebbero soltanto una scusa per internare gli uiguri, isolandoli fino alla loro eliminazione.

Nello Xinjiang la più alta percentuale mondiale di produzione di polisilicio

Di certo la produzione di polisilicio in Cina, e più precisamente nello Xinjiang, è così massiccia da costituire la più alta percentuale di produzione mondiale, il che vuol dire sicuramente necessità di tanta forza lavoro. Vuol dire anche occupazione e, di conseguenza, lotta alla disoccupazione. Tra l’altro, pare che i lavoratori di queste fabbriche siano degli specialisti, con alte qualifiche e un alto grado di istruzione, oltre che con requisiti specifici tecnici.

Possibile che nel 2021 esista ancora un lavoratore istruito disposto ad accettare un’offerta di lavoro forzato? Per estrema necessità economica potrebbe anche ipotizzarsi, ma sarebbe e resterebbe comunque un caso isolato. Non è facilmente concepibile che masse di professionisti accettino condizioni lavorative disumane se non per un ritorno quanto meno utile. Nell’epoca di Internet, poi, è davvero difficile pensare che non si riesca a condividere sui social o in altro modo una tale eventuale barbarie.

L’ambasciatore cinese in Australia, Cheng Jingye, ha smentito la notizia secondo cui un milione di uiguri sarebbero stati arrestati nello Xinjiang e ha sottolineato il fatto che ciò che è avvenuto nello Xinjiang non ha differenza con quello che gli altri Paesi, compresi quelli occidentali, fanno per combattere i terroristi.

Inquinamento in Cina

Sappiamo che oggi la Cina è uno dei Paesi che inquinano di più ma sappiamo anche che recentemente il presidente cinese, Xi Jinping, ha annunciato l’intenzione di trasformare la Cina in un Paese carbon neutrality entro il 2060. Questo la dice lunga sulla voglia di crescere della Cina e sulla voglia di questa nazione di mettersi al passo con le necessità del nostro pianeta, dal punto di vista di energia rinnovabile e di scelte economico-politico-culturali.

Come si legge sul sito dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, “l’obiettivo della carbon neutrality richiede una trasformazione radicale dell’economia cinese: attualmente le fonti fossili rappresentano l’85% del mix energetico del Paese e le rinnovabili il 15%. La Cina è il maggior consumatore di carbone al mondo, con una quota pari al 50,2%. Una percentuale straordinaria, se si considera che il secondo consumatore è l’India, con l’11,3% sul totale mondiale, cui seguono gli Usa con una quota dell’8,3%.

Carbone fondamentale per l’economia cinese

In effetti il carbone è ancora fondamentale per l’economia cinese: rappresenta il 58% del totale dei consumi energetici del Paese e il 66% della produzione elettrica”. Ma l’Ispi conferma anche che “il Paese non parte da zero: produce il 30% del totale dell’energia elettrica da fonti rinnovabili installata nel mondo. È leader nelle tecnologie relative alle energie pulite – tra cui solare ed eolico – ed è il maggior produttore mondiale di auto e bus elettrici. La Cina produce, a livello mondiale, circa il 70% dei pannelli solari e quasi la metà delle turbine eoliche. Costruisce inoltre il 70% delle batterie a ioni di litio e controlla gran parte dell’estrazione delle terre rare necessarie nella filiera dell’elettricità. Inoltre, Pechino potrebbe infine adottare politiche di riforestazione e riduzione di emissioni CO2 prodotta attraverso nuove tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio”. 

Si verifica sempre più, tra tutte le grandi potenze mondiali, quella che ‘The Diplomat’, giornale che tratta notizie che riguardano tutta l’area asiatico-pacifica, definisce “corsa alle tecnologie pulite”. Il giornale online ha scritto di come la Cina oggi domini il mercato dei pannelli solari grazie a dispositivi dal costo basso grazie ai sussidi del Partito-Stato, e che una “sana” concorrenza tra America e Cina permetterebbe di ridurre i costi delle tecnologie pulite e di ridurre i livelli di emissioni di gas serra, a beneficio di tutti.

Cina primo partner commerciale della Ue

Non dimentichiamo che la Cina, nel 2020, è diventata il primo partner commerciale della Ue, dato confermato anche dal fatto che Bruxelles ha firmato con Pechino un’intesa sugli investimenti. Già poco prima che scoppiasse l’emergenza Covid-19, Italia e Cina avevano già intrapreso un percorso molto importante di collaborazione. La cosiddetta ‘Nuova via della Seta’, voluta nel 2013 dal Presidente cinese, Xi Jinping, a fine 2019 stava vedendo un’accelerata nella visita di Luigi Di Maio, volato a Shanghai per partecipare alla China International Import Expo da ministro degli Esteri competente anche per il commercio internazionale.

Si erano definiti ulteriori importanti aspetti di questa collaborazione che vuole mirare ad incrementare il commercio e lo scambio del mercato tra Cina ed Europa, quindi anche Italia. Poi, anche in mezzo alle mille tragedie e difficoltà causate dal Coronavirus, Italia e Cina sono riuscite a nutrire una sempre più costruttiva cooperazione che ha portato la popolazione italiana a considerare la Cina, in un 36%, il principale partner strategico in questa èra di emergenza sanitaria da Covid-19. Il sondaggio SWG, dei primi giorni di aprile 2020, rilevava poi che una percentuale minore, cioè del 30%, pensava invece agli Stati Uniti come partner ideale. La percentuale restante era indecisa tra l’uno e l’altro Stato. 

Xinjiang e ingerenza Usa

Gli italiani, insomma, sono affezionati ormai più alla Cina in questa condivisione di emergenza e guardano ad essa con maggiore fiducia rispetto al passato. Anche in questa situazione che vede al centro il settore fotovoltaico, così prolifico e promettente, non è detto sia utile prendere come oro colato i report che accusano la Cina con tanta fermezza. 

Ciò che viene spontaneo chiedersi è: può essere anche questa, come altre volte in passato, una strategia, nello specifico americana, finalizzata a spostare l’attenzione su questioni politiche e quindi cercare di dare risalto a singoli eventi accaduti ampliandoli e strumentalizzandoli a proprio favore? Sarà sincera tutta questa attenzione improvvisa per una delle 56 minoranze etniche presenti in Cina e riconosciute dal Partito comunista cinese? 

Se da varie inchieste internazionali Pechino è accusata di detenzioni arbitrarie in “campi di rieducazione”, sorveglianza di massa e sterilizzazioni forzate nei confronti di almeno un milione di persone di detta minoranza musulmana, possiamo e dobbiamo almeno domandarci se tutto questo può avere un secondo fine. Perché le questioni prettamente politiche non dovrebbero mai mischiarsi a quelle economiche e compromettere la cooperazione tra Stati o addirittura tra Continenti. 

Il controllo delle fonti

E poi viene da domandarsi: possiamo andare a controllare le fonti fino in fondo? Possiamo trarre le nostre deduzioni, senza dover per forza pensare che degli episodi eventuali e incresciosi debbano venire generalizzati?  E soprattutto, se delle ingiustizie e delle violazioni avvengono nello Xinjiang, siamo sicuri avvengano soltanto lì? Che differenza c’è tra ciò che accade agli uiguri e ciò che accade anche in alcuni Paesi occidentali? Quante ore lavoriamo ogni giorno? Quanto ci pagano? Cosa ci insegnano? Viene dato il giusto valore al nostro lavoro e alla nostra persona in quanto esseri umani? l’Italia e l’Europa tutta devono necessariamente condividere la posizione assunta dagli Usa o da qualcuno in particolare, in questo caso dal report britannico dell’Helena Kennedy Centre?

Pechino giura che non si tratta di lavoro forzato

Si legge su PV Magazine che poche settimane fa l’azienda produttrice di polisilicio Daqo New Energy Corp ha aperto le porte della sua fabbrica nella città di Shihezi, nella regione autonoma dello Xinjiang, agli investitori istituzionali e agli analisti del settore solare. PV Magazine riporta delle dichiarazioni del produttore cinese:

“Gli analisti del settore solare di Credit Suisse, CICC, Goldman Sachs, HSBC, JP Morgan e sette investitori istituzionali si sono uniti al tour di persona delle strutture all’avanguardia della Società”. 

Nello stesso articolo si legge anche che i giornalisti di vari media tra cui Bloomberg, Financial Times e China’s Global Times erano tra gli osservatori. “Come affermato più volte, non tolleriamo l’uso del lavoro forzato in nessuna circostanza”, ha dichiarato allo stesso magazine il Ceo di Daqo, Longgen Zhang. “Inoltre, i nostri visitatori hanno potuto vedere che il nostro processo chimico, che è altamente automatizzato, digitalizzato e ad alta intensità tecnologica, non favorisce l’impiego di manodopera non qualificata”. Daqo aveva dichiarato già nel gennaio scorso, quando erano emerse le prime accuse del caso alla Cina: “La Società considera l’idea di impiegare ‘lavoro forzato’ o ‘lavoro in carcere’ non solo moralmente ripugnante, ma anche totalmente incoerente con i suoi obiettivi per avere successo in termini di sicurezza, efficienza e costi”.

Xinjiang e testimonianze degli abusi

In alcuni casi le prove dell’accusa nei confronti della Cina sarebbero date da testimonianze che raccontano di torture, aborti forzati, violenze, maltrattamenti… tutto mirato all’estinzione degli uiguri, così come di altre minoranze etniche. 

Fermo restando che la condanna nei confronti della violenza, sotto qualsiasi forma essa si verifichi e da chiunque essa venga messa in atto, è assolutamente da condannare, è poi necessario capire quando e quanto ogni accusa è utile a rendere migliore questo mondo perché senza secondi fini, e quando e quanto, invece, un’accusa può avere, per esempio, motivazioni politiche o strategiche.

Fondamentale salvaguardare i diritti umani in tutto il mondo

È fondamentale continuare a salvaguardare i diritti umani in tutto il mondo e contemporaneamente proteggere e alimentare una cooperazione tra Paesi, in questo caso Europa e Cina, per perseguire uno sviluppo reale e completo. 

Solo il supporto di e a ogni Paese o Continente con le proprie peculiarità e le proprie capacità e competenze può davvero portare ad una crescita e ad uno sviluppo utili per tutti.

Nel fotovoltaico, in particolare, la Cina è la maggiore fornitrice di celle fotovoltaiche, quelle cioè che compongono i pannelli solari. Essa domina, infatti, nella fornitura delle materie prime e dei componenti di base necessari alla produzione dei pannelli. L’Europa, invece, ha dalla sua una competenza tecnologica utile allo sviluppo delle aziende cinesi. 

Uno scambio e una sana cooperazione, come già avvenuti in passato e in altri settori, può funzionare anche nel fotovoltaico e può senza dubbio fare la differenza, costruendo un futuro migliore per tutti.

di Donatella Briganti

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