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Sud Sudan. Tra caos e guerra civile, Usa e Cina continuano il saccheggio

di Salvo Ardizzone

Il Sud Sudan non ha fatto a tempo l’anno scorso a diventar Stato, dopo una guerra lunga e sanguinosa col potere centrale di Khartoum, che è stato investito dal’ennesima delle crisi che punteggiano i Paesi della regione.

L’Splm (Sudan People’s Liberation Movement) che rappresentava i gruppi che avevano lottato per la secessione dal Nord, aveva posto alla Presidenza Salva Kiir (in rappresentanza dell’etnia Dinka) e Riek Mashar alla Vice Presidenza (in rappresentanza dell’etnia Nuer); si sperava che con questa soluzione fosse stato instaurato un equilibrio nel Paese, ma i due gruppi, i principali e da sempre antagonisti, ottenuta l’indipendenza han messo poco a far saltare gli accordi.

Riek Mashar s’è quasi subito ribellato (con il sotterraneo ma sostanzioso appoggio del Sudan); le forze ribelli, riunite in seno alle Ssdf (South Sudan Defence Forces), secondo un funzionario di intelligence europeo responsabile per l’area, raggruppano le milizie che hanno combattuto al fianco dell’Esercito Sudanese contro l’Spla (Sudan People’s Liberation Army) dagli anni 90’ fino agli accordi di pace del 2005, e poi rassegnatesi a far parte del nuovo stato.

Il nodo reale è sempre lo stesso: i proventi derivanti dallo sfruttamento delle risorse del Paese, in testa il petrolio proveniente dai campi dello stato di Unity, al confine con il Sudan, e oggetto di violenti scontri che ne avevano bloccato a lungo l’estrazione. Inutile dire che le “royalties” (e le cospicue mazzette) pagate dalle società estrattrici, cinesi in testa, sono state (e sono) nella realtà destinate alle tasche dei vari signori della guerra che controllano il territorio ed assai poco alle popolazioni. Storia vecchia.

In questa situazione di rinnovate ostilità, il Presidente del Sudan, al Bachir, a inizio gennaio s’è recato a Juba proponendo a Salva Kiir un accordo fra i due Stati, per rinforzare la difesa militare dei campi petroliferi ed isolare i ribelli. Una sfacciata proposta di rimettere in gioco il controllo reale di quel petrolio, sotto la pressione di ribelli foraggiati neanche tanto sottobanco.

L’Amministrazione americana (ormai molto attenta all’area) s’è data da fare, propiziando un accordo a tre: l’Uganda del Presidente Museveni fornirà truppe sul terreno, guidate dal figlio, generale Muhozi, inoltre elicotteri d’attacco Mil Mi 24 Hind e aerei Sukhoi Su 30 raggruppati in una Task Force a Entebbe. Gli Usa forniranno l’appoggio di Special Forces e, soprattutto la sorveglianza del territorio con i droni di Camp Lemonier a Gibuti (oltre ai soliti aiuti in armi e mezzi). Il Sud Sudan coordinerà le sue forze con gli alleati per parare l’attacco dei ribelli sulla capitale e tener liberi i pozzi di petrolio (per inciso, è inutile dire quanto siano nervose le società petrolifere; soprattutto i Cinesi che a suo tempo hanno sborsato molto a Khartoum per avere il controllo dei campi e ora si trovano in una situazione che rimette tutto in gioco).

Nel frattempo, l’Amministrazione Usa per una volta punta ad una soluzione che non sia solo militare: Salva Kiir s’è dimostrato incapace di gestire il Paese, inoltre è espressione degli interessi dell’etnia Dinka, avversaria dei Nuer. Per superare il problema è stato attivato un team composto dall’inviato speciale per il Sudan e il Sud Sudan Donald Booth e dai suoi due predecessori (John Danforth e Roger Winter): il loro obiettivo è aprire un canale parallelo di negoziati riservati con Pagan Amun, Segretario Generale del Splm al potere a Juba. L’uomo, che attualmente si trova agli arresti, vanta una vasta esperienza e numerosi ottimi contatti con i leader di tutta l’area e, non appartenendo né all’etnia Dinka né a quella Nuer, è considerato interlocutore da entrambe ed è l’unico che potrebbe finalmente riunificare l’Splm ora lacerato dalla lotta fra Kiir e Machar.

Il progetto è considerato assai importante da Washington, e lo stesso Segretario di Stato John Kerry ha contattato personalmente Amun per dare copertura all’operazione: si tratta di rinviare le elezioni presidenziali del 2015 al 2017, con la scusa dei disordini in atto e della ricostruzione; in questo periodo Kiir rimarrebbe al potere, e con l’aiuto degli alleati verrebbe liquidata la ribellione di Machar; poi, nel 2017, sarebbe la volta di Pagan Amun che diverrebbe il nuovo Presidente, riunificando il Paese.

Certo, sono parecchi i dubbi su progetti così a lungo termine: Khartoum dovrebbe mettersi il cuore in pace sui campi petroliferi di Unity, Kiir dovrebbe contentarsi di tirare questi anni di potere per poi passare la mano e i Cinesi dovrebbero piantarla di offrire mazzette a tutti ossessionati dall’idea di ricominciare subito a spillar petrolio; ma al momento sembra l’unica soluzione che non parli solo di ottusa violenza che alla fine non fa vincere nessuno.

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