La lotta per un’Irlanda libera nelle parole di Des Dalton, presidente del Republican Sinn Féin
Mi incontro con Des Dalton a Ostia, a una breve passeggiata di distanza dal mare. Il cielo, preludio di un autunno prossimo a venire, è coperto e uggioso, lascia perciò avvertire un clima più simile a quello irlandese che non al caldo del litorale romano. Ed è proprio l’Irlanda il tema del nostro incontro, terra che per Des Dalton è tutt’oggi una patria irredenta. Sin dall’età adolescenziale Dalton ha speso la sua vita per la causa di un’Irlanda riunificata e libera dall’occupazione britannica. Prosegue, oggi, questa battaglia in veste di presidente del Republican Sinn Féin, organizzazione scissasi nel 1986 dal più noto Sinn Féin di Gerry Adams. Facciamo partire da qui, dalla nascita del Republican Sinn Féin la nostra intensa chiacchierata, prima che inizi la conferenza di cui Des Dalton è il principale relatore.
Signor Dalton, cosa spinse un drappello di persone – con in testa il vostro storico leader e suo predecessore alla presidenza del movimento, Ruairí Ó Brádaigh – a fondare il Republican Sinn Féin?
Ci ha spinto la volontà, che riteniamo essere un’esigenza per l’isola d’Irlanda, di mantenere vivi i principi che animarono lo Sinn Féin sin dal 1905, anno della sua fondazione. Principi che consistono nella causa dell’indipendenza irlandese dal giogo britannico, e che noi mai saremo disposti a negoziare. Per questo non accettammo di abbandonare la politica dell’astensionismo, ossia il rifiuto di quelle strutture di comando britannico in Irlanda che sono Leinster House (assemblea delle 26 contee, della Repubblica d’Irlanda) e Westminster (parlamento britannico). Oggi, a oltre un secolo dalla fondazione dello Sinn Féin, noi ci facciamo interpreti dello stesso obiettivo di riunificazione irlandese contestualizzandolo allo scenario politico attuale. Rimaniamo l’unico partito che non si è piegato al sistema, l’unico che di fatto non accetta il frazionamento tra sud e nord dell’isola.
Risulta difficile per molti italiani, complice soprattutto il filtro mediatico che circonda il Nord Irlanda, comprendere l’esistenza del settarismo nella vostra isola. Può spiegarci questa realtà?
Il settarismo è da sempre un’arma dei britannici per dividere il popolo dell’isola d’Irlanda e poter così proseguire a coltivare i propri interessi di dominazione. È stato creato da loro, rappresenta uno dei simboli del loro imperialismo. Agli inizi del Novecento, del resto, i precursori dello Sinn Féin non contemplavano divisioni tra la gente d’Irlanda, il loro messaggio di liberazione era destinato a tutti: uomini e donne irlandesi, protestanti o cattolici che fossero. Nel corso degli ultimi decenni, per mezzo dei condizionamenti mediatici orditi da Londra, dall’esterno dell’isola viene percepito che il nostro è un conflitto religioso o, talvolta, addirittura etnico o razziale. Così non è. La “Proclamazione della Repubblica irlandese”, redatta nel 1916, attesta l’unità di tutti i cittadini a prescindere dalla loro confessione. Nel nostro documento politico, Eire Nua (Nuova Irlanda, ndr), riprendiamo quei principi parlando di una nuova democrazia basata su uno Stato federale e un unico parlamento di tutta l’isola d’Irlanda. Questa prospettiva rappresenta il solo antidoto per sconfiggere il settarismo, poiché consentirebbe a tutti i cittadini di essere rappresentati democraticamente e di discutere e risolvere le diseguaglianze sociali.
Nei mesi scorsi ha avuto eco internazionale la flag protest inscenata dagli orangisti. Si avverte una recrudescenza della violenza dei loro gruppi paramilitari?
Qualche settimana fa l’Irish News ha pubblicato un’inchiesta secondo la quale ci sarebbero una serie di inequivocabili segnali che attesterebbero, a Belfast e in tutto il Nord Irlanda, il riemergere violento di alcuni gruppi lealisti. In realtà, nel passato, simili gruppi hanno sempre rappresentato uno strumento della Gran Bretagna per alimentare il conflitto laddove questo potesse tornargli utile; le autorità britanniche sottotraccia foraggiavano i paramilitari assicurandone l’esistenza. Ad oggi noi crediamo che non sia politicamente conveniente per la Gran Bretagna ripristinare questa strategia, non trarrebbe giovamento – come invece è avvenuto qualche decennio fa – dallo scoppio di una nuova guerra civile. Le recenti proteste paramilitari accomunate dal termine flag protest, sfociate in scontri e prevaricazioni, indicano soltanto la presenza del settarismo, una conseguenza della dominazione britannica in Nord Irlanda che già conoscevamo. Questa questione delle union jack ha finito per distrarre gli abitanti d’Irlanda dai problemi più importanti. Noi ne abbiamo avvertito fin da subito la finalità ingannevole e dunque abbiamo evitato di lasciarci coinvolgere dal clamore suscitato. Non è un simbolo, non è il fatto che una union jack venga o meno issata fuori da una struttura pubblica, dalla City Halldi Belfast la nostra preoccupazione. Ci sono ben altre questioni che dobbiamo affrontare, quali l’imperialismo da sconfiggere e la liberazione nazionale da conseguire. Quando avremo raggiunto questi obiettivi, proclameremo anche la rimozione delle bandiere britanniche da ogni angolo dell’isola.
Qual è il vostro rapporto con la lotta armata oggi? Crede che questa soluzione abbia ancora un senso?
Assolutamente, non credo che il raggiungimento del nostro obiettivo debba passare per forza attraverso la lotta armata, quello che noi oggi stiamo tentando è di riuscirci per mezzo della sola soluzione politica. Ritengo però che ogni popolo abbia il diritto di difendersi laddove la sua esistenza venga minacciata mediante un’oppressione politica, una guerra o qualsiasi altro pericolo per l’unità del Paese e per la democrazia. È quindi importante che le persone, in ogni luogo del pianeta, abbiano coscienza di ciò. Del resto, non è forse questa la dottrina attuata dagli Stati Uniti? Negli ultimi anni Washington non ha esitato a muovere guerra nei confronti di altri Paesi adducendo ragioni di pericolo per la sua sicurezza nazionale. E poi, ci tengo a dire che troppo spesso si parla di violenza in Irlanda senza far riferimento alla causa che l’ha generata, ossia l’autorità britannica. È utile ricordare che ancora oggi il suo effetto più brutale è la presenza di molti giovani repubblicani irlandesi nelle carceri sia del nord che del sud dell’isola. Recentemente, lo stesso Capo della polizia irlandese, Patborne, ha ammesso che un movimento d’opposizione repubblicano esisterà fino a quando la forza militare britannica non abbandonerà l’Irlanda tutta.
Avete contatti con movimenti o partiti italiani?
No, non abbiamo contatti con movimenti o partiti italiani, in quanto non abbiamo simpatie specifiche per alcuna corrente politica. Tuttavia, grazie a Massimiliano Vitelli, che è il nostro portavoce per l’Italia, abbiamo la possibilità di far conoscere il Republican Sinn Féin anche nel vostro Paese e di sviluppare rapporti con persone interessate alle nostre attività. Simili rapporti li intratteniamo anche in Austria, in Germania e soprattutto in Francia, dove operano altri nostri portavoce.
Quanto l’omologazione giovanile occidentale ha influito sull’impegno politico dei ragazzi irlandesi? Come si può parlare ancora di identità nazionale in un simile contesto di appiattimento globale?
La globalizzazione è senz’altro una nuova sfida che un movimento come il Republican Sinn Féin si trova oggi ad affrontare. Alcuni cardini della nostra identità irlandese si sono persi nel tempo, lo scenario che ne deriva è quello di giovani privi di radici. Un esempio in tal senso è costituito dalla quasi estinzione della lingua gaelica, che secondo la Costituzione dovrebbe essere tutelata dallo Stato, il quale, al contrario, ne ha abolito l’insegnamento dai programmi scolastici. Per far fronte a ciò, negli anni si sono costituiti – e continuano a sorgere – gruppi di volontari che si dedicano all’insegnamento, alla divulgazione e alla valorizzazione della lingua gaelica. È anche grazie a questo tipo di attività che si riescono a tramandare ai giovani quei valori per cui i loro nonni si sono battuti. È fondamentale che i giovani non si appiattiscano alla globalizzazione, che recuperino da se stessi quel coraggio che rendeva le generazioni precedenti pronte a rischiare per un ideale, ossia le rendeva vive. Nel 2016 correrà il centenario della “Proclamazione della Repubblica irlandese”, un evento che speriamo riesca a contribuire a ridestare le loro coscienze.
Cosa pensa del referendum sulla Scozia indipendente che si terrà tra un anno? Il suo esito potrà influire anche sull’Irlanda?
Attendiamo con fiducia l’esito di questo referendum, certo! Il nostro storico presidente, Ruairí Ó Brádaigh, ha sempre sostenuto che la liberazione dell’Irlanda potesse passare soltanto attraverso la contemporanea liberazione della Scozia. Gli scozzesi, del resto, si battono per i nostri stessi diritti. Ciò che accade nelle nostre terre è la riproposizione locale di un problema globale, presente in ogni latitudine, costituito da un potere centrale che mira ad imporsi e a soffocare l’autodeterminazione dei popoli. Se la Scozia otterrà l’indipendenza, noi irlandesi non potremo che raccoglierne grande giovamento.
di Federico Cenci